giovedì 15 giugno 2017

domenica 7 aprile 2013

Urbino 2020

Il seguente racconto è stato presentato all'incontro "Urbino 2020" del 6 aprile 2013. Ma Giorgio Borghesi ci ha appena detto che sta meditando di fermarsi a Urbino per qualche altro giorno ancora, perché è convinto che altre cose ci siano da vedere ed esperienze da provare. Forse. Provate a invitarlo a qualche luogo o a qualche iniziativa, è probabile che vi venga a trovare: è un uomo assai curioso e aperto. Questo racconto si propone infatti di accompagnarlo attraverso altre novità che la città di Urbino saprà proporgli. Si tratta insomma di un work in progress a disposizione dell'immaginazione e della progettualità che "Urbino 2020"  ha provato a liberare.
E non preoccupatevi dei costi: sognare non costa nulla.

                                                                  2020 – Urbino è


I giornali dicevano il vero. Giorgio trovò nebbia all’uscita del traforo della Guinza lungo la Fano Grosseto, ma la sua auto sapeva come tenersi a distanza dalle altre e all’uscita di Urbino lo condusse verso il parcheggio di Santa Lucia, dove l’aspettava il posto auto che aveva già prenotato sul sito urbinoparking.it.
Passò sotto al display luminoso che indicava le direzioni verso i parcheggi e il numero di posti ancora disponibili. --Ho fatto bene a prenotare-- pensò --ne sono rimasti davvero pochi--. Si fermò al box delle informazioni turistiche per ritirare le brochures con le manifestazioni in corso e quelle in programma. --Le prenda tutte- gli disse cortese l’addetta --grazie al portale web con gli eventi della città non ci sono sovrapposizioni, così non si perderà nulla --.
Sistemata l’auto, prese il trolley accingendosi a percorrere a piedi i cento metri che lo separavano dall’albergo che aveva prenotato sul web. --Bello farsi questa passeggiata. Sono solo sette anni che manco da Urbino, voglio proprio vedere se è così cambiata come dicono--.
Arrivò infine all’albergo e salì in camera. --Toh, il questionario sul comodino, da compilare alla partenza: anche perché ora non ho tempo, tra poco ho la visita al Palazzo Ducale, prenotata dal sito web della Soprintendenza. Visto che ho già pagato online l’ingresso all’orario che volevo, non devo perdermelo--. Dieci minuti dopo era già in Piazza Rinascimento. Ne avrebbe impiegati la metà se non l’avesse rallentato la contemplazione delle tante vetrine sfavillanti e luminose lungo Via Veneto. Ne contò una trentina --Ma dov’erano, tutti sti locali?-- si chiese --anche il fruttivendolo sembra una boutique!--. Carla, la guida che – naturalmente - aveva prenotato, lo riconobbe subito.
--Salve, signor Borghesi-- gli sorrise. Lui le diede la mano ma guardò lontano.
--Salve… ma… scusi-- disse puntando il dito verso il fondo della piazza --non ci sono più quegli orrendi, variopinti cassonetti dell’immondizia davanti all’Università!--.
--Eh già-- disse la guida --Grazie ai due euro della tassa di soggiorno hanno creato le isole ecologiche interrate e invisibili. Mi dica piuttosto, ha scaricato l’app “UrbinoTurismo” per il suo cellulare?--
--Certo, prima di partire. E‘ la mappa interattiva della città con tutti i luoghi da visitare, collegata a Foursquare e Tripadvisor. Io preferisco lei, ma è bello che si possa scegliere. E forse di cose da scoprire ce ne sono, mi pare che la città sia molto cambiata. Ad esempio non vedo più lo scempio delle auto parcheggiate davanti alla Chiesa di San Domenico. Mi ero sempre chiesto: ma come fa un urbinate a dire di amare la propria città e imbrattare ogni giorno i suoi monumenti?--.
--Già-- disse Carla --è stata importante l’attivazione delle telecamere nell’isola pedonale. Dopo un primo assalto al permesso, l’epifania: a un certo punto il permesso, da status symbol è diventato una vergogna, un insulto alla bellezza. La bellezza non è solo vedere, è anche vivere. Il turismo è aumentato, non solo grazie agli eventi promossi dalle istituzioni e dai commercianti, ma soprattutto da eventi autoprodotti. Da città dell’Utopia, Urbino è diventata la città della fantasia. Gli spazi pubblici ospitano e liberano la creatività. Ci sono luoghi attrezzati per gli artisti di strada, mentre allo speaker’s corner c’è sempre gente che si diverte da matti sia a parlare che ad ascoltare. Così ogni giorno si può venire in centro sapendo di trovare qualcosa. E guardi, passa il trenino!--
--Una gran comodità-- osservò Giorgio --come in tutte le città turistiche, specie quelle con tante salite. Un bel giro panoramico per poi scendere e risalire quando e dove vuoi. Ho saputo che anche a questo gli urbinati erano contrari. Curiosi, questi urbinati. Ho l’impressione che abbiano entrate diverse dal turismo, o qualche rendita vitalizia che li ha resi molli e ostili ai cambiamenti. Chissà.--
--Lasci stare che è ora di entrare a Palazzo Ducale. Anche qui ci sono stati grandi novità. Sul sito ufficiale della Soprintendenza c’è la storia del Palazzo e una scheda per ogni dipinto, con i rimandi intertestuali… un vero tesoro! Da quando c’è questo sito i turisti sono triplicati, perché il 70% di loro decide il viaggio consultando il web.. e se non sei sul web, non esisti. La svolta c’è stata da quando il Ministero ha cominciato  a dare i premi di produttività alle soprintedenze in base al numero di biglietti staccati. Oh, guarda che fila…meno male che abbiamo prenotato--.
Con il biglietto, avrebbe potuto acquistare l’audioguida o un’applicazione specifica per l’Iphone. Ma lui preferiva ancora le relazioni umane e rispettava il lavoro insostituibile delle guide. Il percorso per salire e uscire al piano nobile transitava obbligatoriamente attraverso il bookshop, per cui decise di rimandare gli acquisti al momento dell’uscita. La visita fu assai piacevole. Accanto a ogni quadro, una scheda e un QRcode con la possibilità di memorizzare il dipinto nell’app generale e rileggerselo poi.
--Bello, un museo didattico, umile, destinato anche ai comuni mortali, non autoreferenziale da storici dell’arte, finalmente--. Due ore dopo erano fuori.
--Cos’altro possiamo vedere, ora?-- disse alla guida --tenga conto che ho già visitato la città in passato, mi piacerebbe soprattutto vedere le novità, se ce ne sono--.
--Non c’è che l’imbarazzo della scelta-- disse Carla --venga con me--. Imboccarono Via San Domenico, e dopo pochi metri videro una struttura che a lui sembrò familiare.
--Ma… sembra uno di quei mercati coperti delle bastides aquitane--
--In effetti il principio è quello: questo cortile per quarant’anni era stato ingombrato da lamiere arrugginite che coprivano dei resti romani che nessuno aveva neppure reso visibili o sforzatosi di mettere un cartello. Non solo la solita idea autoreferenziale ed elitaria della cultura, ma anche il disinteresse generale. Un caso di scuola di ignavia e di assuefazione al brutto. Ma finalmente l’anno scorso si è posta una lastra di cristallo sul pavimento per mostrare i resti romani al di sotto, mentre sopra si è creata questa struttura in legno, coperta, che può ospitare più di cento persone. E così i turisti e le gite scolastiche che ogni primavera visitano Urbino hanno un posto per fermarsi, riposare e mangiare. Il pranzo al sacco non è un crimine, ma una scelta--.
--Ma non è finita, venga con me--. Fecero altri trenta metri. --Ecco i giardinetti panoramici. Anch’essi con frammenti di mosaici romani messi sotto vetro e dei bellissimi giardinetti con vista sul Mausoleo dei Montefeltro e sul Monastero di Santa Chiara appena restaurato. La stessa sorte della Fortezza Albornoz: ricoperta di terra com’era una volta e resa di nuovo uno splendido punto panoramico e di svago per turisti e cittadini. Come città rinascimentale Urbino è unica, a questo e non ad altro deve la sua gloria e la sua attrattività. Come resti romani non vale un tubo. Non è venuto mai un cane a visitare i resti romani. Giustamente. Questa autoreferenzialità inutile, dannosa, perniciosa, è stata finalmente messa da parte. La fortuna dell’Italia e di Urbino sta nell’offrire al meglio fantasia e bellezza. Due cose che non ci potranno mai portare via. Alla fine qualcuno se n’è accorto--.
--Brava!-- applaudì Giorgio. La filippica di Carla lo trovava pienamente concorde.
Da lì, scesero via Saffi fino al torrione Volponi. Borghesi rimase sbalordito.
--Questo-- disse scrutando le porte dell’appennino --è uno dei paesaggi più belli del mondo--
--Siamo davanti alla casa di Paolo Volponi che dà il nome al torrione-- aggiunse lei --Nell’angolo, una tavola panoramica incisa sul bronzo illustra i nomi di tutte le vette appenniniche visibili sullo sfondo--.
--Decisamente più bello di tanti punti panoramici che ho visto in Europa-- disse Borghesi.
--La nostra giornata si conclude qui. E’ soddisfatto?-- chiese Carla.
--Certamente, signorina. Urbino è sempre bella, ma sa cos’è cambiato? Ora c’è il senso dell’accoglienza, il turista sente di essere un ospite gradito, al centro dell’attenzione e delle strategie. Mi sono davvero sorpreso nel veder soddisfatti i miei desideri inespressi. Non un pollo da spennare ma un amico ai quale far provare un’emozione. E quando crei queste condizioni, il pollo si spenna da solo! Ma mi dica: com’è potuto succedere?--.
-Mah, è cominciato tutto sette anni fa, a un incontro chiamato Urbino 2020…-
-E che successe, quel giorno?-
-Successe che da quel giorno si mise in moto un movimento di opinione che trasformò la mentalità degli urbinati da conservatrice, resistente a ogni cambiamento, a innovativa e vogliosa ogni giorno di cose nuove. Fu una specie di miracolo- riconobbe Carla -ma accadde perché si vide che un modo diverso di esistere era non solo possibile, ma soprattutto molto più remunerativo-.
Mentre si avviavano verso la piazza, Giorgio notò qualcosa di nuovo anche restando a osservare il selciato.
-Se penso a tutte le buche nelle strade che vedo in altre città.. invece qua non ne ho viste. Dico male o è così??
-Mah, forse ce ne saranno anche, non voglio idealizzare troppo la mia città, ma di certo un sistema di manutenzione efficace è stato trovato. Glielo faccio vedere- Carla aprì l’app dello smartphone e la mostrò a Giorgio. -Vede? Qui c’è la mappa del territorio comunale di Urbino. I cittadini registrati col semplice numero di cellulare possono cliccare su un punto preciso e indicare un problema di manutenzione. Una lampadina fulminata, una frana, una buca e così via. Da quel momento si attiverà una luce rossa sul sito, visibile a tutti, tanto che anche altri potranno cliccare sullo stessa segnalazione aumentandone il livello di priorità. In questo modo l’Ufficio Tecnico del Comune sa dove è richiesto un interventi prioritario e urgente. Dal momento in cui si attiva per risolvere il problema, la luce diventa gialla, per diventare verde al momento della soluzione e scomparire nei giorni successivi-
-Ottima cosa- si compiacque Giorgio, che poi aggiunse -Ma lei ha impegni domani? Questa città mi sta sorprendendo ogni giorno di più. Pensa che avremmo altre cose da vedere, se restassi anche domani?-
Carla si aprì in un largo sorriso
-Ma certo, sarà un piacere accompagnarla. Ho già in mente una sorpresa per lei-
-D’accordo, allora. Ci vediamo domattina alle nove, va bene?-
-Benissimo- rispose Carla mentre era già con la mente al giorno dopo.
La mattina dopo, Giorgio si meravigliò di vedere Carla imboccare via Battisti e disse:
-Ma dove stiamo andando? Questa via non ha mai avuto nulla di particolarmente interessante, per i turisti-
-Certo-sorrise Carla -come patrimonio artistico e archiettonico ha ancora ragione. Ma Urbino aveva un altro straordinario patrimonio: quello delle scuole d’arte, dell’Accademia, delle tradizioni incisorie e calcografiche. Artigiani che hanno creato strumenti preziosi e artisti che qui sono nati o qui hanno trovato luoghi, persone maestri e strumenti per liberare il loro genio-.
E mentre Carla parlava, erano arrivati ormai a metà di via Battisti, così Giorgio, piuttosto che porre nuove domande, poté capire coi suoi occhi quel che la sua guida intendeva. Accanto alla fontana della Barberina, questo gli venne detto esserne il nome, prendeva a risalire una via, con il lato sinistro occupato, senza interruzioni, da una lunga schiera di botteghe artigiane, o almeno così parve di vedere a Giorgio. Arrivati più vicino, si accorse che in quelle botteghe lavoravano degli artisti i quali, approfittando della bella giornata, esponevano i loro lavori. Uno di loro era già al lavoro nel ritrarre una giovane laureata con il tocco in testa e la corona d’alloro.
-Accidenti che bello, sembra una piccola Montmartre-
-Dovrebbe vedere in certe sere d’estate- commentò Carla soddisfatta - la magia delle piccole luci di ogni bottega e quelle dei ristorantini, tra le note di qualche musicista. Un piccolo borgo a sé stante. Si potrebbe dire sì, una piccola Montmartre, ma là ci sono soltanto semplici ritrattisti, mentre qua ci sono anche artigiani che riprendono e tramandano un’antica tekné che soltanto Urbino possiede-.
-Sta continuando a stupirmi. E dovrò fermarmi anche stasera, ho capito!-

giovedì 2 febbraio 2012

La Clinica (ottava puntata)

Nella sala d’attesa dell’ambulatorio c’era sempre qualcuno più vecchio. Ma sapeva che prima o poi sarebbe accaduto. E accadde quel giorno: la pole position era finalmente sua, e non gli piaceva. L’idea che il vigile urbano sprofondato nella sedia vicino alla finestra dimostrasse dieci anni più di lui pur sapendo che ne aveva tre in meno, piuttosto che consolarlo si impose con la forza di una prova d’accusa schiacciante. Nel tentativo di distrarsi andò a fare un giro nel corridoio, dove lo aspettavano quelle marine affisse alle pareti che lui e tanti altri avevano già visto mille volte ma sulle quali non aveva mai riflettuto. “Nelle sale d’attesa dovrebbero esserci dei quadri colorati, magari copie di Bruegel, stampe di Musante, roba meno grigia su cui passare un po’ di tempo a ragionare. Su ‘sta roba qua nessuno può aver speso dei soldi. Forse erano allegate a qualche rivista medica che un’infermiera s’è ritrovata tra le mani in un nebbioso pomeriggio di novembre o forse l’omaggio interessato di qualche rappresentante farmaceutico, perché tanto nessuno fa niente per niente”. Questi e altri pensieri tristi gli vennero in mente assieme alla sensazione che fosse un peccato suscitarli in un luogo già così denso di tristezza. Tra le schiume delle onde scure e rabbiose che aveva davanti agli occhi stava persino prendendo forma uno sguardo cinereo e maligno, ma finalmente venne il suo turno.
Si sentì sollevato da tante amare constatazioni e con una battuta lo fece presente a Roberto, il suo coetaneo che cercava di curargli corpo e spirito.
- Caro Roby, finalmente ho conquistato la pole position. –
- Stai tranquillo – rispose l’altro pacioso, senza alzare lo sguardo dalle carte che stava ancora compilando – non è ancora il nostro momento. Il Gran Premio deve ancora cominciare.
- Sarà come dici te, ma io mi sto scoraggiando. Tutti questi acciacchi cronici mi hanno mandato in depressione. Dici bene, te, che devo imparare a conviverci, ma mi sembra di convivere con la morte, un ossimoro che farebbe anche ridere se non fosse tragico. Psoriasi, artrite reumatoide… e adess anca l’ucel…
- Senti Fabio – lo interruppe il medico alzando la testa dal ricettario per farsi improvvisamente serio – hai ragione. Non è più il caso di scherzare. Lo vedo, che da un po’ di tempo non sei più tu. Prima venivi una volta l’anno, adesso sei sempre qua e non perché sei innamorato di me, credo. Eri sempre allegro, scherzavi sui tuoi malanni, reagivi sempre e davi forza anche a me che ogni tanto mi lascio coinvolgere da tutte le disgrazie e le sofferenze che mi passano davanti. Ha cominciato a pesare anche a me, la vita, cosa credi? – poi d’un tratto abbassò la voce, si alzò leggermente dalla sedia e si spinse verso di lui sussurrando - ma tu sei ateo, vero?
Fabio rimase sorpreso dalla domanda, ma confermò:
- Certo, lo sai benissimo. Agnostico, per la precisione. Ma questo cosa c’entra?
- C’entra, c’entra. Però non me la sento, e non posso, parlarti qua dove gira tanta gente. Non è un posto sicuro per la proposta che voglio farti. Quand’è che puoi venire a casa mia, tu da solo, senza tua moglie?
- Mamma mia, e cosa mi devi dire di così segreto?
- Non posso dirtelo, anzi, ti ho già detto troppo. Dimmi solo se vuoi provare a guarire davvero dai tuoi acciacchi.
- Oddio, il mistero mi affascina – provò a scherzare ma gli venne male - se poi ha questa prospettiva salvifica come faccio a dir di no? Va bene, non voglio sapere di più: stasera Anna va a cena con le amiche, ti va bene?
- Benissimo. Allora ti invito a cena, per le otto. Poi ti dirò tutto.
Fabio trascorse il pomeriggio continuando a chiedersi se Roberto avesse uno scherzo da fargli o se quell’espressione così insolitamente seria fosse davvero motivata da una proposta altrettanto seria. E cosa c’entravano le sue convinzioni religiose? Magia? Su tutto prevaleva comunque la speranza di risolvere quei problemi che lo stavano deprimendo ogni giorno di più.
Si presentò a casa dell’amico dieci minuti prima delle otto, tenendo in mano un ottimistico Moet & Chandon.
- Bravo – lo accolse Roberto sorridendo – vedo che hai capito già tutto. Entra che lasciamo fuori solo lo champagne.
Gli anni dell’università passati lontani da casa avevano fatto di Roberto, oltre che un bravo medico, anche un ottimo cuoco. Cucina bolognese, forse più indicata per il pranzo che per la cena ma il padrone di casa non eccedette con le quantità. Voleva che il suo ospite fosse lucido, disponibile ad ascoltarlo ma pur sempre padrone del proprio libero arbitrio.
Tra una chiacchiera e l’altra arrivarono al dunque. Fabio incrociò di nuovo lo sguardo serioso con cui Roberto l’aveva sorpreso poche ore prima, poi lo sentì dire:
- Lo champagne aspettiamo ad aprirlo. Vediamo se ce ne sarà davvero motivo.
- Ok – Fabio incrociò i gomiti sul tavolo e si mise all’ascolto ricambiando l’incrocio di pupille.

- Allora. Ascoltami bene. La prima cosa da fare è un’incombenza obbligatoria: devi giurarmi su tutto ciò che hai di più caro che non dirai a nessuno quello che sto per dirti, sia che tu debba accettare sia che tu debba declinare la proposta che ti farò. Scusami ma devo farlo per mille motivi, uno dei quali il fatto che se tu raccontassi in giro quello che sto per dirti, come minimo non potrei più lavorare. –
- Ok – rispose Fabio senza esitare, preso dalla solennità dell’invito e dall’ansia di conoscenza - Giuro su mio figlio che non dirò nulla a nessuno di quello che mi dirai stasera –
Roberto si sistemò sulla sedia, prese fiato e disse:
- Bene. Allora ricapitoliamo. Oggi mi hai detto, come del resto sapevo già, che non credi né in Dio né in nessun’altra forma di trascendenza. Finora la cosa riguardava soltanto te. Adesso invece conta. Conta perché posso farti una proposta, che non potrei certo fare a quelli che credono nel paradiso e nell’inferno o nei Campi Elisi e nell’Ade, nel Walhalla o in Manitu. La proposta, viste le tue condizioni fisiche e psicologiche, è semplice e assoluta: andare in una clinica dove ti passerà tutto. Come un miracolo. E non ti spaventare, non è che tu sia uno che ha bisogno di un miracolo per guarire. Anzi, i malati gravi non vanno bene, non sono adatti. I test che sono stati fatti finora dimostrano che quelli come te sono i candidati ideali alla soddisfazione di entrambi. Età media, fisico ancora integro ma cedente, sensazione di invecchiamento ma ancora non rassegnato alla vecchiaia e al decadimento. Tu vedi l’abisso oltre il valico, si potrebbe dire. Siamo fatti così: abbiamo nostalgia della gioventù, consultiamo i vecchi album di fotografie in bianco e nero. Per illuderci di rivivere in loro li condividiamo nei social network dove magari ritroviamo qualche vecchia fiamma che siccome adesso è più disperata di noi magari è molto più disponibile di una volta…
- Va bene va bene! – l’interruppe Fabio anche per l’imbarazzante vestito che gli stava cucendo addosso l’amico – ho capito. Ma hai detto “entrambi”. Entrambi chi? –
- Tu e la scienza. – enfatizzò Roberto allargando le braccia per poi riprendere - Sapranno farti guarire da tutti i mali con una terapia indolore che ti rimetterà al mondo e ti darà una salute di ferro, fermando ogni forma di invecchiamento e fissando una condizione di salute permanente. E’ una cosa meravigliosa. Devi solo firmare una liberatoria e acconsentire a un prelievo.
- Un prelievo? E basta? Liberatoria? E da cosa? – Fabio era confuso. Non aveva mai sentito parlare di una cosa simile.
- Certo, solo un prelievo. E’ semplice, visto che sei agnostico non avrai problemi a sottoporti a un intervento assolutamente indolore: non ti nascondo nulla e del resto leggerai tutto nella liberatoria. La clinica dove effettuano questo intervento si chiama Clinica San Faustino. E’ una clinica sensistica, dove da molti anni si stanno facendo esperimenti sul rapporto corpo-spirito. Insomma, sull’anima. E inevitabilmente la medicina si confonde con la filosofia e con la fisica, tant’è che l’intervento su di te, sempre se acconsentirai, ti verrà fatto da una loro équipe ma in un altro luogo: il CERN di Ginevra. –
A Fabio venne una risata:
- Al CERN? E cos’è? Mi sparate nel reattore? Esperimenti sull’anima? Ma per farci esperimenti bisogna averla in mano! -
- Esatto. Hai centrato la cosa. Loro pensano di averla in mano. Di avere scoperto l’anima. Lo spirito insomma, la parte invisibile e forse immortale del corpo. E ritengono che esista anche il modo di prelevarla dal corpo. Certo, parliamo di esperimenti per diversi motivi. Primo perché la cosa non è ancora dimostrabile scientificamente, secondo perché ci sono enormi problemi deontologici da superare ed è per questo che sono assolutamente segreti. E pensa solo agli enormi interessi economici in gioco: l’acceleratore di particelle Tevatron, su cui gli americani avevano investito trecento milioni di dollari è stato chiuso per mancanza di fondi. Terzo perché, una volta prelevata, l’anima non si può più restituire. Anzi, molti esperimenti falliscono con l’anima che si dissolve, o se ne va chissà dove, una cosa tremenda, per chi ci crede. E comunque non tutte le anime sono adatte. Te l’ho detto: ai malati terminali non si riesce ad estrarla. Più il corpo è malato più gli si attacca, si avvinghia al suo spirito diventando una cosa sola. Si pensa che riguardi l’amor proprio: l’egoismo in fondo rende l’idea. Ma più di una volta è stata intrappolata, e le persone a cui è stato fatto il prelievo non provano nessuna alterazione psicofisica. Questo in parte è rassicurante ma in parte, naturalmente, potrebbe sostenere le ragioni dei detrattori dell’esperimento.-
- Ma come fanno a dire che in queste provette c’è intrappolata l’anima?
- Vedi, non tutte sono rimaste nelle provette. Una è stata trapiantata in una cavia. Ma non posso dirti di più. E non sanno ancora neppure perché dopo questo prelievo gli uomini diventino praticamente immuni da ogni malattia.
- Senti – respirò Fabio riprendendo il controllo – per quanto sia affascinante il tuo racconto, anche se non credo che tu mi stia prendendo in giro o che ci sia un telecamera nascosta, mi domando innanzitutto come mai questa scoperta non ha ancora fatto il giro del mondo.
- Intanto, come ti ho detto, è una fase sperimentale e indimostrabile. E siamo ancora pochissimi, sia gli incaricati come me sia i candidati che sono stati individuati. Io sono stato coinvolto da mio fratello che ci lavora, naturalmente dopo una trafila di giuramenti, per non dire ricatti. E non è un privilegio, anche se il coinvolgimento umano e professionale è fortissimo perché senti di vivere un momento fondamentale della storia, ma io e lui a questo punto siamo incastrati in questa storia e come puoi capire corriamo tutti dei rischi enormi. – Roberto aveva il fiato corto e dovette fare una pausa, tanto Fabio non aveva parole con cui interromperlo, poi riprese: - la scoperta è avvenuta, come tante scoperte scientifiche, per caso, mentre si cercava tutt’altro. Ma adesso chi l’ha fatta non vuole assolutamente perdere questa occasione. Forse anche tutto il potere che ne potrà derivare. Hai presente il Bosone di Higgs, la Particella di Dio? Ci sono miliardi di euro in gioco e non è concesso svicolare dall’obiettivo. Eppure qualcuno di loro non ha resistito alla tentazione di pensare che provare l’esistenza di un Dio Creatore significhi anche, parallelamente, provare l’esistenza di un’anima individuale e immortale. E per far questo hanno avuto bisogno di esseri viventi. Prima cavie, poi necessariamente umani.

- Cavie? – Fabio lo seguiva con attenzione, e a questo punto non potè fare a meno di obiettare – ma come fai a cercare l’anima nelle cavie? Non è soltanto l’uomo a possedere anima? Oh, ribadisco che per me son tutte cazzate, sia chiaro.
La sottolineatura abbassò la tensione e Roberto sorrise.
- Lo so lo so, non preoccuparti, continuo a sapere come la pensi. E teoricamente hai ragione, ma si tratta sempre di teorie. Astrazioni. Questioni teologiche. Ipotesi non suffragate da alcuna prova scientifica. La scienza è prima di tutto empirismo. Magari adesso anche meccanica quantistica, ma alla fine il principio è sempre quello: “provare e riprovare”. Insomma, mai dare niente per scontato o precostituito. E comunque, in effetti le cavie non hanno dato riscontri. Ma anziché desistere hanno rilanciato la posta, e hanno giocato il tutto per tutto puntando sugli esseri umani, stessi esperimenti con risultati diversi, da mostrare in contrapposizione. Hanno trovato dei volontari, qualcuno dice neanche tanto volontari ma cavie anche quelle.
- In che senso?
- Come ti ho detto, erano malati terminali. Disposti a tutto. E infatti le cose andarono in modo diverso, rispetto agli animali. Ma videro anche che non erano adatti. Come ti ho detto…spiegata banalmente…la malattia, la depressione forte, il degrado fisico e psichico provocano anche il degrado dell’elemento spirituale che ne segue il destino. Per questo in un primo tempo pensavano di aver individuato un elemento organico, per quanto nuovo. Poi, finalmente, con un soggetto sostanzialmente sano e motivato alla vita (io dico probabilmente anche ben pagato) c’è stata la scissione.
- Eeeh…addirittura. Atomica? Trovò la forza di scherzare Fabio
- Beh una specie, non credere. Non una bomba vera ma la madre di tutte le scoperte. Ti rendi conto? Anzi, lo so che non ti rendi conto, tu non ci credi. Per questo sei il candidato giusto, perfetto.
Fabio per un momento sentì vacillare le sue certezze e chiese a Roberto ma in fondo anche a se stesso:
- Potrebbe anche darsi, magari non è l’anima, lo spirito, ma solo quella parte del corpo che sta all’origine delle speculazioni, dei sentimenti: neuroni, endorfine e cose simili. Dov’è la prova del fatto che la trascendenza si sia fatta sostanza? Di che materia è fatta questa cosa che hanno estratto?
-Infatti – replicò Roberto alzandosi in piedi per andare a prendere una bottiglia di Armagnac – Infatti – continuava pensoso e fascinoso mentre versava da bere all’amico – la svolta è avvenuta col trapianto.
- Il trapianto? E su chi?
- Beh, se devi dimostrare che una cosa esiste, devi darla a chi non ce l’ha e registrare i risultati.
- A un animale? – intuì Fabio - e quale?
- Basta. Mi dispiace ma non posso dirti di più.
- E perché? – si spazientì Fabio
-Non sono autorizzato. Io sono un reclutatore, e forse ti ho già detto anche troppo. Quello che se ne fanno di ciò che hai ceduto non ti riguarda, la cosa non ti apparterrà più. Tu ora puoi solo dire sì o no. Una cosa sola è certa: che sarai guarito da tutti i mali. Anche se non ti ho ancora detto un piccolo particolare.
- Ancora?
- Un’inezia…anzi…un milione di inezie.
- Un milione di che? – Fabio si infastidiva a far la parte di quello che sa solo far domande, ma era più forte di lui. Troppe erano le cose da sapere.
- Per te. Un milione di euro. Per il prelievo
- Ma voi siete una manica di matti! Senti, per l’ultima volta io spero che tu non mi abbia preso per il culo…
Ma a quel punto anche Roberto si alterò:
- Sentimi te: appena avrai avuto il versamento, e soltanto allora, verrai con noi. Ma a quel punto niente ripensamenti.
- Ma che scherzi? Trovo dei matti che vanno a caccia di mosche e posso vendergliene una a un milione di euro, magari guarisco pure dai miei acciacchi e non approfitto? Senti, secondo me se sta cosa fa così bene al fisico o è per un bell’effetto placebo o al limite per una cesura del sistema nervoso, dei centri del dolore o cose simili. In ogni caso a me sta benissimo l’offerta, decisamente allettante per un materialista disincantato e depresso come me. Quando volete allora, io ci sto. Però dimmi: perché tanti soldi offerti? Non si trova gente…diciamo… forzatamente?
- Forse – sorrise Roberto - ma i soldi non sono un problema, ci sono. E devono assicurare in cambio la piena volontà, sancita dalla firma, insieme al segreto. Se parli perdi tutto. E non credere di essere uno di tanti che accetterebbero. In te si riassumono tutte le caratteristiche del candidato ideale.
- Ok ok. Le anime non sono tutte uguali e la mia è la migliore, va bene va bene, ci siamo intesi – cantilenò Fabio .
- No, piuttosto puoi dire che pochi, tra voi eletti, alla fine hanno avuto la forza di firmare.
- Ma se la storia è piena di patti col diavolo – disse Fabio rievocando le sue letture, ma tacque immediatamente incrociando gli occhi di Roberto, che fissi sull’infinito trapassavano i suoi.
- No, per favore. Qui il diavolo non c’entra, amico mio. Forse potremmo dire che questo patto è anche peggiore: il diavolo, quand’anche dovesse comprarti l’anima, almeno ti ci lascia vivere assieme, mentre qua il prelievo è anticipato. Da vivi. E non si torna indietro. Ma voglio concedertelo: può anche darsi che la scienza sia diventato strumento inconsapevole di Satana. In ogni caso la scienza è sempre stata un treno lanciato in una corsa senza freni. Inarrestabile. E se Dio esiste, ormai sente sul collo il fiato latrante e ringhioso dei cani. Per questo alla fine sarà costretto a voltarsi indietro ad azzannare il capobranco, rivelando finalmente la sua esistenza nel morso dell’animale braccato. La nostra sfida sta nell’evocare quelle fauci invisibili e prendere quel morso, che forse l’intera umanità si sentirà affondare nelle carni. Ma dopo – proseguì alzando la voce - niente sarà più come prima, neanche per lui. Perché si è voltato indietro, finalmente, a guardare l’umanità da vicino, talmente vicino da incrociare gli sguardi e le carni. E’ lì che lo aspettiamo.

Il crescendo parossistico, fin quasi alla furia di Roberto impressionò Fabio, che dubitò di nuovo della serietà della proposta appena ricevuta.
- Va bene, va bene- troncò la discussione - dammi un paio di giorni. Poi come procederà la cosa?
- Appena ci avrai dato il consenso scritto, con l’indicazione del conto sul quale effettuare il bonifico, verrà trasferita la cifra. Poi ti chiameremo. Andremo di notte. Sarai bendato perché non dovrai vedere nessuna delle persone che incontrerai e neppure la località precisa dove avverrà la cosa. Un paio d’ore per alcune analisi essenziali, poi sarai anestetizzato ma sarà una cosa breve. Tutto avverrà entro la notte. Ti sveglierai e sarai un uomo nuovo, in gran forma, pervaso da una sensazione meravigliosa di forza e di invulnerabilità, pronto ad affrontare una vita senza ostacoli. Perfetto, direi. Quasi immortale. Certo, delle tue prodigiose condizioni fisiche posso garantire. E anche quelle psichiche, intellettivamente intese, non avranno problemi. Invece con la dimensione spirituale te la dovrai vedere tu e il tuo libero arbitrio. Cosa ne dici?
- Dico che è ora di aprire lo champagne!
Il viso di Roberto si aprì a un grande sorriso che gli rimase stampato fino a che non ebbe il sughero del tappo sulla punta dell’unghia, pronto a saltare non prima della risposta alla sua domanda:
- Allora a che brindiamo?
- Alle tre esse! – fece d’istinto Fabio.
- Molto bene…Soldi, Salute e Sesso…e chissà quante altre esse potremo far felici!
- Esatto! – Fabio esclamò d’istinto, si adombrò un attimo a causa dell’indecifrabile acrostico di Roberto ma poi pensò “ma chissenefrega” e proseguì:
- Voi datemi le prime due che poi alla terza ci penso io!
- Alle tre esse! – tintinnarono i calici.
- E ai progressi della Scienza! – aggiunse Fabio ritenendosi illuminato.
- Alla Scienza – confermò a mezza voce Roberto, che poco dopo lo accompagnò alla porta abbracciandolo con un’affettuosità un po’ imbarazzante ma giustificata dall’eccezionalità del patto appena stretto.
Fabio scese le scale con attenzione. Era una zona del quartiere poco illuminata, ma fortunatamente familiare. Lo separavano da casa soltanto trecento metri di asfalto e radi lampioni di periferia.
Tristezza. Quella c’era sempre, anche quella sera. Era come una musica di sottofondo che gli risuonava dentro, ogni volta che passeggiava nel quartiere di sera. “Luoghi senza storia, senz’anima” gli venne da pensare. Non potè fare a meno di riflettere su quella parola che gli era così familiare, ultimamente. “Chissà se poi anch’io diventerò così. Come una di queste case moderne, dall’intonaco perfetto, le finestre coibentate, il cronotermostato, il garage interno, pavimenti a squadro con le pareti, niente muffa niente condensa niente spifferi, proprio come le vuoi tu, a misura di condomino, interno personalizzato purché fuori tutte uguali, una all’altra. Rompi un infisso lo cambi con un altro uguale, non ci vuol nulla, le misure sono standard, universali. Neanche perder tempo a riparare, troppa manodopera, spreco di umanità. Sostituire. La casa è bionica, ricambiabile all’infinito senza mai perderne l’intima sostanza. Un’illusione di personalità individuale, di libero arbitrio – e ripensò alle parole di Roberto: “col tuo libero arbitrio poi te la vedi tu”. - Ecco, la libertà assoluta purché entro i confini della gabbia. Ma una gabbia sana, forte, immortale e immutabile. A misura tua, mica come le case del centro storico che eri tu a doverti adattare a loro e alle loro scomodità. Quelle sono case cocciute, prepotenti, sono loro a comandare, a condizionarti. Se dici “questa è casa mia” lei sghignazza, perché è lei ad avere te, non il contrario. Puoi chiamarla anche “casa mia”, ma è già stata di tanti altri, prima di te, e altri ne avrà dopo, vecchia puttana. Si porta dentro tutti i segni del tempo, cicatrici sulle quali non c’è niente da fare. Stagni una tubatura e rovini l’intonaco, ridipingi il muro e si apre una crepa, chiudi la crepa e salta una piastrella, riattacchi la piastrella ma si rompe il solaio, ripari il solaio e rompi una tubatura, ridipingi e riapri la crepa. Alla fine ti arrendi, lei non sarà mai tua, non sarà mai te. Perché quella è la sua natura unica e selvaggia, il suo modo di avere un’anima, che non puoi sopprimere. E’ l’irripetibilità dell’imperfezione che rende unici. La perfezione è una copia seriale, l’imperfezione è un originale irripetibile.
I perfetti sono tutti uguali. Gli imperfetti, ognuno a modo suo. Ansia. Immotivata, certo, ma c’era. E la ragione non bastava a scacciarla. Arrivato a casa si mise subito a letto provando a dormire.

Dormi. Facile a dire. Un ronzio di sottofondo gli impediva il rilassamento che deve precedere il sonno. “Devi essere felice. Non perderai nulla e sarai ricco, sano e felice. Felicità. E’ questa parola che mi ripeto continuamente senza placarmi. Ma perché? Davvero a cosa rinuncio? A nulla, a una cazzata che si sono inventati questi scienziati pazzi per speculare sull’oppio dei popoli. O a una topica gigantesca che si sono presi. E io che posso approfittare di questa meravigliosa botta di culo dovrei sprizzare di gioia. Invece. Invece basta. Basta non ce la faccio più. Adesso vado a fare una passeggiata davanti alla bellezza, come facevo da ragazzo quando avevo le tempeste ormonali e mi alzavo dal letto e andavo in cerca di donne per non arrendermi rassegnato alle seghe della sconfitta.”
Deciso. Si alzò e si rivestì. Era nervoso, sempre più nervoso. Immotivatamente, ma proprio l’insensatezza di quell’ansia non gli dava pace. “La ragione. La ragione ha sempre ragione” si ripeteva aggiungendo “la risposta c’è sempre, anche quando non la trovi”. Salì in auto e dopo dieci minuti lungo i pensieri delle strade deserte arrivò a parcheggiare quasi sotto ai torricini, dove il confronto con la bellezza l’aveva sempre consolato da ogni bruttura del mondo e dalle sorprese dell’infido destino. Scese con calma, consapevole di essere nel luogo e nel momento nel quale aveva sempre ricevuto le risposte. Le tre di notte, perfetto. Non c’era in giro anima viva. Silenzio. Solo un leggero ronzio dai riflettori che illuminavano i due prodigi della levità che come sfingi loquaci avevano sempre risposto alle domande che poneva loro da quando ragazzino ci andava a pomiciare approfittando della loro ruffiana, acerba complice floridità da seni o membri adolescenziali.
“Guardatemi, guardatemi” sussurrò alzando gli occhi verso le cime appuntite di quelle torri, che aveva sempre sentito vive e vicine.
“Voi siete me, lo so. L’ho sempre saputo. Siete sempre state le mie sibille, la risposta immancabile, il verbo laico. Ascendenza e trascendenza. Vedo le vostre cime affondare nel buio e pescarne la luce. E allora adesso ho bisogno di una risposta, perché la vostra ferma, secolare bellezza dà il senso alle cose. Siete come la vita. Il senso non è realtà ma possibilità. Il mistero è il senso. Ho paura. Ho paura che senza questa angoscia carnale, organica, voi sareste solo un ammasso di calce e mattoni appoggiati uno sull’altro, e il cielo sopra di voi nient’altro che assenza. Se siamo nella città dell’anima cosa mi resterà? Non ho paura dell’altra vita ma di questa, da vivere col cuore secco, senza più spleen, niente soffrire, niente amare, niente più perdersi nella struggente bellezza vostra e del mondo. Ho paura. E’ vero, ho più paura di questo che della morte.
Ma se una metà della vita l’ho affrontata nella bellezza, il progressivo disfacimento del mio corpo mi negherà comunque di poter continuare a sentire questa sintonia. Comunque vi perderei, in un modo o nell’altro. Per questo son venuto a dirvi addio. Domani vi vedrò con occhi diversi, temo.
Tirò fuori dalla tasca la digitale e scattò un paio di foto nell’illusione, che sapeva vana, di salvare lì dentro la sua anima, qualora ne avesse avuta una, e magari di potersela andare a riprendere, un domani che avesse voluto.

Il giorno dopo, all’apertura dell’ambulatorio, Fabio c’era. Era arrivato venti minuti prima ma non era riscito a presndere il numero uno. Prima di lui c’era una vecchia, bassa e storta, coi capelli a crocchia come sua nonna morta, solo che questa era viva. Univa all’odioso fatto di averlo anticipato l’evidente sgradevolezza esteriore delle persone grette. Una gonna blu consunta e sbiadita sulla quale gravava una maglia di lana di quelle fatte in casa all’uncinetto, di un rosa grigiastro deprimente. Ai piedi aveva quelle mezze cose, né scarpe né ciabatte, che vanno bene sia in casa che fuori così da possedere solo quelle, oltre a un altro paio mai messe, le suole lucide da esibire al funerale. Lei lo ricambiava guardandolo di tanto in tanto e mettendolo a disagio. Se lui la guardava, lei guardava altrove, ma se abbssava lo sguardo sentiva quegli occhi posarsi su di lui come uova rompersi in testa.
Si sentì la voce di Roberto dal fondo del corridoio:
- Il primo!
La vecchietta si alzò, gli lanciò un'ultima e fastidiosa occhiata di sfida come dicendogli “adesso vedrai quanto ci sto!” che lo costrinse a sorridere senza essere ricambiato. Poi si rintanò nello studio del medico.
Ora, sappiamo tutti bene cosa significhi esssere in fila dal medico e vedersi precedere da un’ottuagenaria ipocondriaca. Succede la stessa cosa se ce l’hai davanti a messa e vorresti far la comunione dopo una purificante confessione. Ma quella è sempre dentro al confessionale, arriva il momento dell’eucarestia e tu aspetti ancora, inutilmente. Già, esiste anche l’ipocondria da dannazione, il Signore può chiamare anche ora e tu ti senti nel peccato mortale anche se hai solo saltato una messa e allora guai, le fiamme eterne son là che ti attendono senza appello, per l’eternità.
Qualcuno dovrebbe spiegarlo, al medico come al confessore, che queste signore, un tempo donne, a questa età hanno un problema di presenzialità. Si convincono ogni giorno di più che la vita sta sfuggendo loro di mano e maturare comportamenti ostruttivi alla vita degli altri dà loro un concreto, tangibile, oggettivo scopo nella vita. Il vero motivo per cui abusano oltre ogni limite del tempo altrui sta nell’attesa che impongono a quelli che aspettano dopo di loro. Se non ci fosse nessuno non indugerebbero certo così a lungo.
E’ per via del tempo. Il bene più prezioso al mondo. I vecchi sono ladri di tempo. Tu ne hai molto più di loro, per questo te lo rubano. Senza la loro presenza la nostra vita sarebbe stata diversa. Migliore o peggiore a loro importa poco. Quel che conta è rubarti il tempo: non lo riavrai mai più
Finalmente uscì, e si portò via un bel malloppo, pieno della vita di Fabio.
Ma questi pensieri svanirono nell’ansia di entrare nello studio.

(fine puntate 1/7) - Ottava puntata

Roberto lo guardò da dietro la scrivania con gli occhi sgranati, ma sorridendo. Ormai la cosa stava andando avanti, anche se Fabio si sentiva più vittima che contraente.
- Come stai? - disse il medico
- Beh, ancora sto sempre uguale. Diciamo che non vedo l’ora di star meglio.
- Ecco qua la ricetta – fece Roberto tirando fuori dal cassetto un paio di fogli di carta di Amalfi – i moduli sono pronti.
- Moduli – replicò Fabio a bassa voce, quasi parlando a se stesso – chissà che mi credevo. Magari pergamene da firmare col sangue.
- Ma dai – Roberto alzò un braccio mandandolo a quel paese ma aggiungendo – anche se… -
- Se cosa? Si preoccupò Fabio,attento a ogni imprevisto.
- Beh, in effetti questa cosa della firma col sangue è vera. Niente di esoterico. Solo la necessità di avere la prova del Dna, qualora occorresse.
- Oddio, anche questa. – Fabio ebbe un moto di fastidio, poi un giramento di testa. Si sedette, mentre Roberto alzava il telefono.
- Marina, può venire a fare un prelievo? - poi si rivolse a Fabio:
- Stai tranquillo, tutto nella norma.
L’infermiera arrivò con una siringa puntata verso il cielo. Fabio si lasciò docilmente prelevare 10 cc di sangue, anche perché anestetizzato dagli occhi e dai seni appuntiti di quella mora silenziosa e sfuggente. Roberto si fece lasciare la provetta e quando fu di nuovo solo con Fabio ne versò il contenuto in un calamaio estratto dal cassetto assieme a un’elegante fodera di velluto contenente una penna d’oca così perfetta che sembrava colta per l’occasione.
- Ma è vera? Fabio si stupì di tanta levigata perfezione.
- E pensi che per una cosa simile si usino surrogati cinesi? – aggiunse il dottore – Forza, firma questi due contratti.
- Calma, vorrei leggere bene i contenuti. Non credo che sia una cosa indifferente, sapere cosa mi aspetta, anche se conosco la scelta di Hobson. E lesse ad alta voce, anzi non porprio alta, visto che l’emozione e il prelievo lo avevano decisamente debilitato:
- Io sottoscrito Fabio De Lucia, nato a Lione il 1 giugno 1962, nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche e mentali, dichiaro di cedere unilateralmente e a titolo definitivo la totale disponibilità morale e materiale della mia anima a coloro che ne verranno in possesso dopo di me. Dichiaro altresì che costoro potranno cederla a loro volta a terzi senza alcun vincolo o condizione nei miei confronti e disporne nelle modalità che vorranno, anche in forme contrarie a qualsiasi modalità di espressione della mia volontà successive alla data odierna e senza che io possa pretendere alcunché. Sottoscrivo altresì che essendomi la definizione di “anima” completamente estranea sarò per parte mia libero da qualsiasi ulteriore obbligo contrattuale al di fuori dell’oggetto del presente contratto unilaterale che si perfezionerà al momento dell’uscita dell’anima dalla mia disponibilità. Firmato Fabio De Lucia.
Alzò gli occhi e guardò fisso Roberto dicendogli:
- Letto così fa una certa impressione. E col Dna c’entra poco.
- Nella firma, c’entra. Del testo che ti importa? Si parla del nulla, tanto, no? Anche se l’ho visto, che avevi un po’ di tremore. Ma è normale. Sicuro allora?
- Certo – disse Fabio ritrovando sicurezza – dammi qua.
Prese il calamaio con la sinistra e la penna con la destra, affondandola con calma nel calamaio. Il suo sangue era del colore che gli piaceva di più, un bel bordeaux carico tendente al violaceo.
E con quello scrisse il suo nome.

lunedì 11 aprile 2011

La Clinica. Ottava puntata

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Puntate precedenti
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Nella sala d’attesa dell’ambulatorio c’era sempre qualcuno più vecchio. Ma sapeva che prima o poi sarebbe accaduto. E accadde quel giorno: la pole position era finalmente sua, e non gli piaceva. L’idea che il vigile urbano sprofondato nella sedia vicino alla finestra dimostrasse dieci anni più di lui pur sapendo che ne aveva tre in meno, piuttosto che consolarlo si impose con la forza di una prova d’accusa schiacciante. Nel tentativo di distrarsi andò a fare un giro nel corridoio, dove lo aspettavano quelle marine affisse alle pareti che lui e tanti altri avevano già visto mille volte ma sulle quali non aveva mai riflettuto. “Nelle sale d’attesa dovrebbero esserci dei quadri colorati, magari copie di Bruegel, stampe di Musante, roba meno grigia su cui passare un po’ di tempo a ragionare. Su ‘sta roba qua nessuno può aver speso dei soldi. Forse erano allegate a qualche rivista medica che un’infermiera s’è ritrovata tra le mani in un nebbioso pomeriggio di novembre o forse l’omaggio interessato di qualche rappresentante farmaceutico, perché tanto nessuno fa niente per niente”. Questi e altri pensieri tristi gli vennero in mente assieme alla sensazione che fosse un peccato suscitarli in un luogo già così denso di tristezza. Tra le schiume delle onde scure e rabbiose che aveva davanti agli occhi stava persino prendendo forma uno sguardo cinereo e maligno, ma finalmente venne il suo turno.
Si sentì sollevato da tante amare constatazioni e con una battuta lo fece presente a Roberto, il suo coetaneo che cercava di curargli corpo e spirito.
- Caro Roby, finalmente ho conquistato la pole position. –
- Stai tranquillo – rispose l’altro pacioso, senza alzare lo sguardo dalle carte che stava ancora compilando – non è ancora il nostro momento. Il Gran Premio deve ancora cominciare.
- Sarà come dici te, ma io mi sto scoraggiando. Tutti questi acciacchi cronici mi hanno mandato in depressione. Dici bene, te, che devo imparare a conviverci, ma mi sembra di convivere con la morte, un ossimoro che farebbe anche ridere se non fosse tragico. Psoriasi, artrite reumatoide… e adess anca l’ucel…
- Senti Fabio – lo interruppe il medico alzando la testa dal ricettario per farsi improvvisamente serio – hai ragione. Non è più il caso di scherzare. Lo vedo, che da un po’ di tempo non sei più tu. Prima venivi una volta l’anno, adesso sei sempre qua e non perché sei innamorato di me, credo. Eri sempre allegro, scherzavi sui tuoi malanni, reagivi sempre e davi forza anche a me che ogni tanto mi lascio coinvolgere da tutte le disgrazie e le sofferenze che mi passano davanti. Ha cominciato a pesare anche a me, la vita, cosa credi? – poi d’un tratto abbassò la voce, si alzò leggermente dalla sedia e si spinse verso di lui sussurrando - ma tu sei ateo, vero?
Fabio rimase sorpreso dalla domanda, ma confermò:
- Certo, lo sai benissimo. Agnostico, per la precisione. Ma questo cosa c’entra?
- C’entra, c’entra. Però non me la sento, e non posso, parlarti qua dove gira tanta gente. Non è un posto sicuro per la proposta che voglio farti. Quand’è che puoi venire a casa mia, tu da solo, senza tua moglie?
- Mamma mia, e cosa mi devi dire di così segreto?
- Non posso dirtelo, anzi, ti ho già detto troppo. Dimmi solo se vuoi provare a guarire davvero dai tuoi acciacchi.
- Oddio, il mistero mi affascina – provò a scherzare ma gli venne male - se poi ha questa prospettiva salvifica come faccio a dir di no? Va bene, non voglio sapere di più: stasera Anna va a cena con le amiche, ti va bene?
- Benissimo. Allora ti invito a cena, per le otto. Poi ti dirò tutto.
Fabio trascorse il pomeriggio continuando a chiedersi se Roberto avesse uno scherzo da fargli o se quell’espressione così insolitamente seria fosse davvero motivata da una proposta altrettanto seria. E cosa c’entravano le sue convinzioni religiose? Magia? Su tutto prevaleva comunque la speranza di risolvere quei problemi che lo stavano deprimendo ogni giorno di più.
Si presentò a casa dell’amico dieci minuti prima delle otto, tenendo in mano un ottimistico Moet & Chandon.
- Bravo – lo accolse Roberto sorridendo – vedo che hai capito già tutto. Entra che lasciamo fuori solo lo champagne.
Gli anni dell’università passati lontani da casa avevano fatto di Roberto, oltre che un bravo medico, anche un ottimo cuoco. Cucina bolognese, forse più indicata per il pranzo che per la cena ma il padrone di casa non eccedette con le quantità. Voleva che il suo ospite fosse lucido, disponibile ad ascoltarlo ma pur sempre padrone del proprio libero arbitrio.
Tra una chiacchiera e l’altra arrivarono al dunque. Fabio incrociò di nuovo lo sguardo serioso con cui Roberto l’aveva sorpreso poche ore prima, poi lo sentì dire:
- Lo champagne aspettiamo ad aprirlo. Vediamo se ce ne sarà davvero motivo.
- Ok – Fabio incrociò i gomiti sul tavolo e si mise all’ascolto ricambiando l’incrocio di pupille.

- Allora. Ascoltami bene. La prima cosa da fare è un’incombenza obbligatoria: devi giurarmi su tutto ciò che hai di più caro che non dirai a nessuno quello che sto per dirti, sia che tu debba accettare sia che tu debba declinare la proposta che ti farò. Scusami ma devo farlo per mille motivi, uno dei quali il fatto che se tu raccontassi in giro quello che sto per dirti, come minimo non potrei più lavorare. –
- Ok – rispose Fabio senza esitare, preso dalla solennità dell’invito e dall’ansia di conoscenza - Giuro su mio figlio che non dirò nulla a nessuno di quello che mi dirai stasera –
Roberto si sistemò sulla sedia, prese fiato e disse:
- Bene. Allora ricapitoliamo. Oggi mi hai detto, come del resto sapevo già, che non credi né in Dio né in nessun’altra forma di trascendenza. Finora la cosa riguardava soltanto te. Adesso invece conta. Conta perché posso farti una proposta, che non potrei certo fare a quelli che credono nel paradiso e nell’inferno o nei Campi Elisi e nell’Ade, nel Walhalla o in Manitu. La proposta, viste le tue condizioni fisiche e psicologiche, è semplice e assoluta: andare in una clinica dove ti passerà tutto. Come un miracolo. E non ti spaventare, non è che tu sia uno che ha bisogno di un miracolo per guarire. Anzi, i malati gravi non vanno bene, non sono adatti. I test che sono stati fatti finora dimostrano che quelli come te sono i candidati ideali alla soddisfazione di entrambi. Età media, fisico ancora integro ma cedente, sensazione di invecchiamento ma ancora non rassegnato alla vecchiaia e al decadimento. Tu vedi l’abisso oltre il valico, si potrebbe dire. Siamo fatti così: abbiamo nostalgia della gioventù, consultiamo i vecchi album di fotografie in bianco e nero. Per illuderci di rivivere in loro li condividiamo nei social network dove magari ritroviamo qualche vecchia fiamma che siccome adesso è più disperata di noi magari è molto più disponibile di una volta…
- Va bene va bene! – l’interruppe Fabio anche per l’imbarazzante vestito che gli stava cucendo addosso l’amico – ho capito. Ma hai detto “entrambi”. Entrambi chi? –
- Tu e la scienza. – enfatizzò Roberto allargando le braccia per poi riprendere - Sapranno farti guarire da tutti i mali con una terapia indolore che ti rimetterà al mondo e ti darà una salute di ferro, fermando ogni forma di invecchiamento e fissando una condizione di salute permanente. E’ una cosa meravigliosa. Devi solo firmare una liberatoria e acconsentire a un prelievo.
- Un prelievo? E basta? Liberatoria? E da cosa? – Fabio era confuso. Non aveva mai sentito parlare di una cosa simile.
- Certo, solo un prelievo. E’ semplice, visto che sei agnostico non avrai problemi a sottoporti a un intervento assolutamente indolore: non ti nascondo nulla e del resto leggerai tutto nella liberatoria. La clinica dove effettuano questo intervento si chiama Clinica San Faustino. E’ una clinica sensistica, dove da molti anni si stanno facendo esperimenti sul rapporto corpo-spirito. Insomma, sull’anima. E inevitabilmente la medicina si confonde con la filosofia e con la fisica, tant’è che l’intervento su di te, sempre se acconsentirai, ti verrà fatto da una loro équipe ma in un altro luogo: il CERN di Ginevra. –
A Fabio venne una risata:
- Al CERN? E cos’è? Mi sparate nel reattore? Esperimenti sull’anima? Ma per farci esperimenti bisogna averla in mano! -
- Esatto. Hai centrato la cosa. Loro pensano di averla in mano. Di avere scoperto l’anima. Lo spirito insomma, la parte invisibile e forse immortale del corpo. E ritengono che esista anche il modo di prelevarla dal corpo. Certo, parliamo di esperimenti per diversi motivi. Primo perché la cosa non è ancora dimostrabile scientificamente, secondo perché ci sono enormi problemi deontologici da superare ed è per questo che sono assolutamente segreti. E pensa solo agli enormi interessi economici in gioco: l’acceleratore di particelle Tevatron, su cui gli americani avevano investito trecento milioni di dollari è stato chiuso per mancanza di fondi. Terzo perché, una volta prelevata, l’anima non si può più restituire. Anzi, molti esperimenti falliscono con l’anima che si dissolve, o se ne va chissà dove, una cosa tremenda, per chi ci crede. E comunque non tutte le anime sono adatte. Te l’ho detto: ai malati terminali non si riesce ad estrarla. Più il corpo è malato più gli si attacca, si avvinghia al suo spirito diventando una cosa sola. Si pensa che riguardi l’amor proprio: l’egoismo in fondo rende l’idea. Ma più di una volta è stata intrappolata, e le persone a cui è stato fatto il prelievo non provano nessuna alterazione psicofisica. Questo in parte è rassicurante ma in parte, naturalmente, potrebbe sostenere le ragioni dei detrattori dell’esperimento.-
- Ma come fanno a dire che in queste provette c’è intrappolata l’anima?
- Vedi, non tutte sono rimaste nelle provette. Una è stata trapiantata in una cavia. Ma non posso dirti di più. E non sanno ancora neppure perché dopo questo prelievo gli uomini diventino praticamente immuni da ogni malattia.
- Senti – respirò Fabio riprendendo il controllo – per quanto sia affascinante il tuo racconto, anche se non credo che tu mi stia prendendo in giro o che ci sia un telecamera nascosta, mi domando innanzitutto come mai questa scoperta non ha ancora fatto il giro del mondo.
- Intanto, come ti ho detto, è una fase sperimentale e indimostrabile. E siamo ancora pochissimi, sia gli incaricati come me sia i candidati che sono stati individuati. Io sono stato coinvolto da mio fratello che ci lavora, naturalmente dopo una trafila di giuramenti, per non dire ricatti. E non è un privilegio, anche se il coinvolgimento umano e professionale è fortissimo perché senti di vivere un momento fondamentale della storia, ma io e lui a questo punto siamo incastrati in questa storia e come puoi capire corriamo tutti dei rischi enormi. – Roberto aveva il fiato corto e dovette fare una pausa, tanto Fabio non aveva parole con cui interromperlo, poi riprese: - la scoperta è avvenuta, come tante scoperte scientifiche, per caso, mentre si cercava tutt’altro. Ma adesso chi l’ha fatta non vuole assolutamente perdere questa occasione. Forse anche tutto il potere che ne potrà derivare. Hai presente il Bosone di Higgs, la Particella di Dio? Ci sono miliardi di euro in gioco e non è concesso svicolare dall’obiettivo. Eppure qualcuno di loro non ha resistito alla tentazione di pensare che provare l’esistenza di un Dio Creatore significhi anche, parallelamente, provare l’esistenza di un’anima individuale e immortale. E per far questo hanno avuto bisogno di esseri viventi. Prima cavie, poi necessariamente umani.

- Cavie? – Fabio lo seguiva con attenzione, e a questo punto non potè fare a meno di obiettare – ma come fai a cercare l’anima nelle cavie? Non è soltanto l’uomo a possedere anima? Oh, ribadisco che per me son tutte cazzate, sia chiaro.
La sottolineatura abbassò la tensione e Roberto sorrise.
- Lo so lo so, non preoccuparti, continuo a sapere come la pensi. E teoricamente hai ragione, ma si tratta sempre di teorie. Astrazioni. Questioni teologiche. Ipotesi non suffragate da alcuna prova scientifica. La scienza è prima di tutto empirismo. Magari adesso anche meccanica quantistica, ma alla fine il principio è sempre quello: “provare e riprovare”. Insomma, mai dare niente per scontato o precostituito. E comunque, in effetti le cavie non hanno dato riscontri. Ma anziché desistere hanno rilanciato la posta, e hanno giocato il tutto per tutto puntando sugli esseri umani, stessi esperimenti con risultati diversi, da mostrare in contrapposizione. Hanno trovato dei volontari, qualcuno dice neanche tanto volontari ma cavie anche quelle.
- In che senso?
- Come ti ho detto, erano malati terminali. Disposti a tutto. E infatti le cose andarono in modo diverso, rispetto agli animali. Ma videro anche che non erano adatti. Come ti ho detto…spiegata banalmente…la malattia, la depressione forte, il degrado fisico e psichico provocano anche il degrado dell’elemento spirituale che ne segue il destino. Per questo in un primo tempo pensavano di aver individuato un elemento organico, per quanto nuovo. Poi, finalmente, con un soggetto sostanzialmente sano e motivato alla vita (io dico probabilmente anche ben pagato) c’è stata la scissione.
- Eeeh…addirittura. Atomica? Trovò la forza di scherzare Fabio
- Beh una specie, non credere. Non una bomba vera ma la madre di tutte le scoperte. Ti rendi conto? Anzi, lo so che non ti rendi conto, tu non ci credi. Per questo sei il candidato giusto, perfetto.
Fabio per un momento sentì vacillare le sue certezze e chiese a Roberto ma in fondo anche a se stesso:
- Potrebbe anche darsi, magari non è l’anima, lo spirito, ma solo quella parte del corpo che sta all’origine delle speculazioni, dei sentimenti: neuroni, endorfine e cose simili. Dov’è la prova del fatto che la trascendenza si sia fatta sostanza? Di che materia è fatta questa cosa che hanno estratto?
-Infatti – replicò Roberto alzandosi in piedi per andare a prendere una bottiglia di Armagnac – Infatti – continuava pensoso e fascinoso mentre versava da bere all’amico – la svolta è avvenuta col trapianto.
- Il trapianto? E su chi?
- Beh, se devi dimostrare che una cosa esiste, devi darla a chi non ce l’ha e registrare i risultati.
- A un animale? – intuì Fabio - e quale?
- Basta. Mi dispiace ma non posso dirti di più.
- E perché? – si spazientì Fabio
-Non sono autorizzato. Io sono un reclutatore, e forse ti ho già detto anche troppo. Quello che se ne fanno di ciò che hai ceduto non ti riguarda, la cosa non ti apparterrà più. Tu ora puoi solo dire sì o no. Una cosa sola è certa: che sarai guarito da tutti i mali. Anche se non ti ho ancora detto un piccolo particolare.
- Ancora?
- Un’inezia…anzi…un milione di inezie.
- Un milione di che? – Fabio si infastidiva a far la parte di quello che sa solo far domande, ma era più forte di lui. Troppe erano le cose da sapere.
- Per te. Un milione di euro. Per il prelievo
- Ma voi siete una manica di matti! Senti, per l’ultima volta io spero che tu non mi abbia preso per il culo…
Ma a quel punto anche Roberto si alterò:
- Sentimi te: appena avrai avuto il versamento, e soltanto allora, verrai con noi. Ma a quel punto niente ripensamenti.
- Ma che scherzi? Trovo dei matti che vanno a caccia di mosche e posso vendergliene una a un milione di euro, magari guarisco pure dai miei acciacchi e non approfitto? Senti, secondo me se sta cosa fa così bene al fisico o è per un bell’effetto placebo o al limite per una cesura del sistema nervoso, dei centri del dolore o cose simili. In ogni caso a me sta benissimo l’offerta, decisamente allettante per un materialista disincantato e depresso come me. Quando volete allora, io ci sto. Però dimmi: perché tanti soldi offerti? Non si trova gente…diciamo… forzatamente?
- Forse – sorrise Roberto - ma i soldi non sono un problema, ci sono. E devono assicurare in cambio la piena volontà, sancita dalla firma, insieme al segreto. Se parli perdi tutto. E non credere di essere uno di tanti che accetterebbero. In te si riassumono tutte le caratteristiche del candidato ideale.
- Ok ok. Le anime non sono tutte uguali e la mia è la migliore, va bene va bene, ci siamo intesi – cantilenò Fabio .
- No, piuttosto puoi dire che pochi, tra voi eletti, alla fine hanno avuto la forza di firmare.
- Ma se la storia è piena di patti col diavolo – disse Fabio rievocando le sue letture, ma tacque immediatamente incrociando gli occhi di Roberto, che fissi sull’infinito trapassavano i suoi.
- No, per favore. Qui il diavolo non c’entra, amico mio. Forse potremmo dire che questo patto è anche peggiore: il diavolo, quand’anche dovesse comprarti l’anima, almeno ti ci lascia vivere assieme, mentre qua il prelievo è anticipato. Da vivi. E non si torna indietro. Ma voglio concedertelo: può anche darsi che la scienza sia diventato strumento inconsapevole di Satana. In ogni caso la scienza è sempre stata un treno lanciato in una corsa senza freni. Inarrestabile. E se Dio esiste, ormai sente sul collo il fiato latrante e ringhioso dei cani. Per questo alla fine sarà costretto a voltarsi indietro ad azzannare il capobranco, rivelando finalmente la sua esistenza nel morso dell’animale braccato. La nostra sfida sta nell’evocare quelle fauci invisibili e prendere quel morso, che forse l’intera umanità si sentirà affondare nelle carni. Ma dopo – proseguì alzando la voce - niente sarà più come prima, neanche per lui. Perché si è voltato indietro, finalmente, a guardare l’umanità da vicino, talmente vicino da incrociare gli sguardi e le carni. E’ lì che lo aspettiamo.

Il crescendo parossistico, fin quasi alla furia di Roberto impressionò Fabio, che dubitò di nuovo della serietà della proposta appena ricevuta.
- Va bene, va bene- troncò la discussione - dammi un paio di giorni. Poi come procederà la cosa?
- Appena ci avrai dato il consenso scritto, con l’indicazione del conto sul quale effettuare il bonifico, verrà trasferita la cifra. Poi ti chiameremo. Andremo di notte. Sarai bendato perché non dovrai vedere nessuna delle persone che incontrerai e neppure la località precisa dove avverrà la cosa. Un paio d’ore per alcune analisi essenziali, poi sarai anestetizzato ma sarà una cosa breve. Tutto avverrà entro la notte. Ti sveglierai e sarai un uomo nuovo, in gran forma, pervaso da una sensazione meravigliosa di forza e di invulnerabilità, pronto ad affrontare una vita senza ostacoli. Perfetto, direi. Quasi immortale. Certo, delle tue prodigiose condizioni fisiche posso garantire. E anche quelle psichiche, intellettivamente intese, non avranno problemi. Invece con la dimensione spirituale te la dovrai vedere tu e il tuo libero arbitrio. Cosa ne dici?
- Dico che è ora di aprire lo champagne!
Il viso di Roberto si aprì a un grande sorriso che gli rimase stampato fino a che non ebbe il sughero del tappo sulla punta dell’unghia, pronto a saltare non prima della risposta alla sua domanda:
- Allora a che brindiamo?
- Alle tre esse! – fece d’istinto Fabio.
- Molto bene…Soldi, Salute e Sesso…e chissà quante altre esse potremo far felici!
- Esatto! – Fabio esclamò d’istinto, si adombrò un attimo a causa dell’indecifrabile acrostico di Roberto ma poi pensò “ma chissenefrega” e proseguì:
- Voi datemi le prime due che poi alla terza ci penso io!
- Alle tre esse! – tintinnarono i calici.
- E ai progressi della Scienza! – aggiunse Fabio ritenendosi illuminato.
- Alla Scienza – confermò a mezza voce Roberto, che poco dopo lo accompagnò alla porta abbracciandolo con un’affettuosità un po’ imbarazzante ma giustificata dall’eccezionalità del patto appena stretto.
Fabio scese le scale con attenzione. Era una zona del quartiere poco illuminata, ma fortunatamente familiare. Lo separavano da casa soltanto trecento metri di asfalto e radi lampioni di periferia.
Tristezza. Quella c’era sempre, anche quella sera. Era come una musica di sottofondo che gli risuonava dentro, ogni volta che passeggiava nel quartiere di sera. “Luoghi senza storia, senz’anima” gli venne da pensare. Non potè fare a meno di riflettere su quella parola che gli era così familiare, ultimamente. “Chissà se poi anch’io diventerò così. Come una di queste case moderne, dall’intonaco perfetto, le finestre coibentate, il cronotermostato, il garage interno, pavimenti a squadro con le pareti, niente muffa niente condensa niente spifferi, proprio come le vuoi tu, a misura di condomino, interno personalizzato purché fuori tutte uguali, una all’altra. Rompi un infisso lo cambi con un altro uguale, non ci vuol nulla, le misure sono standard, universali. Neanche perder tempo a riparare, troppa manodopera, spreco di umanità. Sostituire. La casa è bionica, ricambiabile all’infinito senza mai perderne l’intima sostanza. Un’illusione di personalità individuale, di libero arbitrio – e ripensò alle parole di Roberto: “col tuo libero arbitrio poi te la vedi tu”. - Ecco, la libertà assoluta purché entro i confini della gabbia. Ma una gabbia sana, forte, immortale e immutabile. A misura tua, mica come le case del centro storico che eri tu a doverti adattare a loro e alle loro scomodità. Quelle sono case cocciute, prepotenti, sono loro a comandare, a condizionarti. Se dici “questa è casa mia” lei sghignazza, perché è lei ad avere te, non il contrario. Puoi chiamarla anche “casa mia”, ma è già stata di tanti altri, prima di te, e altri ne avrà dopo, vecchia puttana. Si porta dentro tutti i segni del tempo, cicatrici sulle quali non c’è niente da fare. Stagni una tubatura e rovini l’intonaco, ridipingi il muro e si apre una crepa, chiudi la crepa e salta una piastrella, riattacchi la piastrella ma si rompe il solaio, ripari il solaio e rompi una tubatura, ridipingi e riapri la crepa. Alla fine ti arrendi, lei non sarà mai tua, non sarà mai te. Perché quella è la sua natura unica e selvaggia, il suo modo di avere un’anima, che non puoi sopprimere. E’ l’irripetibilità dell’imperfezione che rende unici. La perfezione è una copia seriale, l’imperfezione è un originale irripetibile.
I perfetti sono tutti uguali. Gli imperfetti, ognuno a modo suo. Ansia. Immotivata, certo, ma c’era. E la ragione non bastava a scacciarla. Arrivato a casa si mise subito a letto provando a dormire.

Dormi. Facile a dire. Un ronzio di sottofondo gli impediva il rilassamento che deve precedere il sonno. “Devi essere felice. Non perderai nulla e sarai ricco, sano e felice. Felicità. E’ questa parola che mi ripeto continuamente senza placarmi. Ma perché? Davvero a cosa rinuncio? A nulla, a una cazzata che si sono inventati questi scienziati pazzi per speculare sull’oppio dei popoli. O a una topica gigantesca che si sono presi. E io che posso approfittare di questa meravigliosa botta di culo dovrei sprizzare di gioia. Invece. Invece basta. Basta non ce la faccio più. Adesso vado a fare una passeggiata davanti alla bellezza, come facevo da ragazzo quando avevo le tempeste ormonali e mi alzavo dal letto e andavo in cerca di donne per non arrendermi rassegnato alle seghe della sconfitta.”
Deciso. Si alzò e si rivestì. Era nervoso, sempre più nervoso. Immotivatamente, ma proprio l’insensatezza di quell’ansia non gli dava pace. “La ragione. La ragione ha sempre ragione” si ripeteva aggiungendo “la risposta c’è sempre, anche quando non la trovi”. Salì in auto e dopo dieci minuti lungo i pensieri delle strade deserte arrivò a parcheggiare quasi sotto ai torricini, dove il confronto con la bellezza l’aveva sempre consolato da ogni bruttura del mondo e dalle sorprese dell’infido destino. Scese con calma, consapevole di essere nel luogo e nel momento nel quale aveva sempre ricevuto le risposte. Le tre di notte, perfetto. Non c’era in giro anima viva. Silenzio. Solo un leggero ronzio dai riflettori che illuminavano i due prodigi della levità che come sfingi loquaci avevano sempre risposto alle domande che poneva loro da quando ragazzino ci andava a pomiciare approfittando della loro ruffiana, acerba complice floridità da seni o membri adolescenziali.
“Guardatemi, guardatemi” sussurrò alzando gli occhi verso le cime appuntite di quelle torri, che aveva sempre sentito vive e vicine.
“Voi siete me, lo so. L’ho sempre saputo. Siete sempre state le mie sibille, la risposta immancabile, il verbo laico. Ascendenza e trascendenza. Vedo le vostre cime affondare nel buio e pescarne la luce. E allora adesso ho bisogno di una risposta, perché la vostra ferma, secolare bellezza dà il senso alle cose. Siete come la vita. Il senso non è realtà ma possibilità. Il mistero è il senso. Ho paura. Ho paura che senza questa angoscia carnale, organica, voi sareste solo un ammasso di calce e mattoni appoggiati uno sull’altro, e il cielo sopra di voi nient’altro che assenza. Se siamo nella città dell’anima cosa mi resterà? Non ho paura dell’altra vita ma di questa, da vivere col cuore secco, senza più spleen, niente soffrire, niente amare, niente più perdersi nella struggente bellezza vostra e del mondo. Ho paura. E’ vero, ho più paura di questo che della morte.
Ma se una metà della vita l’ho affrontata nella bellezza, il progressivo disfacimento del mio corpo mi negherà comunque di poter continuare a sentire questa sintonia. Comunque vi perderei, in un modo o nell’altro. Per questo son venuto a dirvi addio. Domani vi vedrò con occhi diversi, temo.
Tirò fuori dalla tasca la digitale e scattò un paio di foto nell’illusione, che sapeva vana, di salvare lì dentro la sua anima, qualora ne avesse avuta una, e magari di potersela andare a riprendere, un domani che avesse voluto.

Il giorno dopo, all’apertura dell’ambulatorio, Fabio c’era. Era arrivato venti minuti prima ma non era riscito a presndere il numero uno. Prima di lui c’era una vecchia, bassa e storta, coi capelli a crocchia come sua nonna morta, solo che questa era viva. Univa all’odioso fatto di averlo anticipato l’evidente sgradevolezza esteriore delle persone grette. Una gonna blu consunta e sbiadita sulla quale gravava una maglia di lana di quelle fatte in casa all’uncinetto, di un rosa grigiastro deprimente. Ai piedi aveva quelle mezze cose, né scarpe né ciabatte, che vanno bene sia in casa che fuori così da possedere solo quelle, oltre a un altro paio mai messe, le suole lucide da esibire al funerale. Lei lo ricambiava guardandolo di tanto in tanto e mettendolo a disagio. Se lui la guardava, lei guardava altrove, ma se abbssava lo sguardo sentiva quegli occhi posarsi su di lui come uova rompersi in testa.
Si sentì la voce di Roberto dal fondo del corridoio:
- Il primo!
La vecchietta si alzò, gli lanciò un'ultima e fastidiosa occhiata di sfida come dicendogli “adesso vedrai quanto ci sto!” che lo costrinse a sorridere senza essere ricambiato. Poi si rintanò nello studio del medico.
Ora, sappiamo tutti bene cosa significhi esssere in fila dal medico e vedersi precedere da un’ottuagenaria ipocondriaca. Succede la stessa cosa se ce l’hai davanti a messa e vorresti far la comunione dopo una purificante confessione. Ma quella è sempre dentro al confessionale, arriva il momento dell’eucarestia e tu aspetti ancora, inutilmente. Già, esiste anche l’ipocondria da dannazione, il Signore può chiamare anche ora e tu ti senti nel peccato mortale anche se hai solo saltato una messa e allora guai, le fiamme eterne son là che ti attendono senza appello, per l’eternità.
Qualcuno dovrebbe spiegarlo, al medico come al confessore, che queste signore, un tempo donne, a questa età hanno un problema di presenzialità. Si convincono ogni giorno di più che la vita sta sfuggendo loro di mano e maturare comportamenti ostruttivi alla vita degli altri dà loro un concreto, tangibile, oggettivo scopo nella vita. Il vero motivo per cui abusano oltre ogni limite del tempo altrui sta nell’attesa che impongono a quelli che aspettano dopo di loro. Se non ci fosse nessuno non indugerebbero certo così a lungo.
E’ per via del tempo. Il bene più prezioso al mondo. I vecchi sono ladri di tempo. Tu ne hai molto più di loro, per questo te lo rubano. Senza la loro presenza la nostra vita sarebbe stata diversa. Migliore o peggiore a loro importa poco. Quel che conta è rubarti il tempo: non lo riavrai mai più
Finalmente uscì, e si portò via un bel malloppo, pieno della vita di Fabio.
Ma questi pensieri svanirono nell’ansia di entrare nello studio.

(fine puntate 1/7) - Ottava puntata

Roberto lo guardò da dietro la scrivania con gli occhi sgranati, ma sorridendo. Ormai la cosa stava andando avanti, anche se Fabio si sentiva più vittima che contraente.
- Come stai? - disse il medico
- Beh, ancora sto sempre uguale. Diciamo che non vedo l’ora di star meglio.
- Ecco qua la ricetta – fece Roberto tirando fuori dal cassetto un paio di fogli di carta di Amalfi – i moduli sono pronti.
- Moduli – replicò Fabio a bassa voce, quasi parlando a se stesso – chissà che mi credevo. Magari pergamene da firmare col sangue.
- Ma dai – Roberto alzò un braccio mandandolo a quel paese ma aggiungendo – anche se… -
- Se cosa? Si preoccupò Fabio,attento a ogni imprevisto.
- Beh, in effetti questa cosa della firma col sangue è vera. Niente di esoterico. Solo la necessità di avere la prova del Dna, qualora occorresse.
- Oddio, anche questa. – Fabio ebbe un moto di fastidio, poi un giramento di testa. Si sedette, mentre Roberto alzava il telefono.
- Marina, può venire a fare un prelievo? - poi si rivolse a Fabio:
- Stai tranquillo, tutto nella norma.
L’infermiera arrivò con una siringa puntata verso il cielo. Fabio si lasciò docilmente prelevare 10 cc di sangue, anche perché anestetizzato dagli occhi e dai seni appuntiti di quella mora silenziosa e sfuggente. Roberto si fece lasciare la provetta e quando fu di nuovo solo con Fabio ne versò il contenuto in un calamaio estratto dal cassetto assieme a un’elegante fodera di velluto contenente una penna d’oca così perfetta che sembrava colta per l’occasione.
- Ma è vera? Fabio si stupì di tanta levigata perfezione.
- E pensi che per una cosa simile si usino surrogati cinesi? – aggiunse il dottore – Forza, firma questi due contratti.
- Calma, vorrei leggere bene i contenuti. Non credo che sia una cosa indifferente, sapere cosa mi aspetta, anche se conosco la scelta di Hobson. E lesse ad alta voce, anzi non porprio alta, visto che l’emozione e il prelievo lo avevano decisamente debilitato:
- Io sottoscrito Fabio De Lucia, nato a Lione il 1 giugno 1962, nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche e mentali, dichiaro di cedere unilateralmente e a titolo definitivo la totale disponibilità morale e materiale della mia anima a coloro che ne verranno in possesso dopo di me. Dichiaro altresì che costoro potranno cederla a loro volta a terzi senza alcun vincolo o condizione nei miei confronti e disporne nelle modalità che vorranno, anche in forme contrarie a qualsiasi modalità di espressione della mia volontà successive alla data odierna e senza che io possa pretendere alcunché. Sottoscrivo altresì che essendomi la definizione di “anima” completamente estranea sarò per parte mia libero da qualsiasi ulteriore obbligo contrattuale al di fuori dell’oggetto del presente contratto unilaterale che si perfezionerà al momento dell’uscita dell’anima dalla mia disponibilità. Firmato Fabio De Lucia.
Alzò gli occhi e guardò fisso Roberto dicendogli:
- Letto così fa una certa impressione. E col Dna c’entra poco.
- Nella firma, c’entra. Del testo che ti importa? Si parla del nulla, tanto, no? Anche se l’ho visto, che avevi un po’ di tremore. Ma è normale. Sicuro allora?
- Certo – disse Fabio ritrovando sicurezza – dammi qua.
Prese il calamaio con la sinistra e la penna con la destra, affondandola con calma nel calamaio. Il suo sangue era del colore che gli piaceva di più, un bel bordeaux carico tendente al violaceo.
E con quello scrisse il suo nome.
.

domenica 9 maggio 2010

Dal Mont s'ved el mar

.

I’ en la cnosch la foschia marina
se nascond i vascelli fantasma
o se la caligin infida
Dventarà nebbia stanott.

En cnosch el nom del vent
se guard el fil dl’onda
o se odor el sal
pers tl’aria salmastra

Io el Far el veg da dietra
dai mont del gir inutil
du strissa l’occh
per po’ arguardè l’acqua.

Io so l’strollig dl’acqua stretta
distingue i granell da le panucc’
te so dì s’tacca o non tacca
da com vien giò le polisch

El mi pass quand buffa
trova la piola nascosta
sotta la mucchia de nev
ch'fa caschè el marinar

I dubbi de ch’i atre
a Urbin è i mister
e l’inisiasion
s’fa tla Barburana
.

giovedì 1 aprile 2010

Amore mio

.
Amore mio
se non ti amassi
t’amass io

Le lucciol

.


Cl’atra nott en chiapav son
alora me so alsat.
Dietra l’avlan ho arvist cle luc’
che da bordel i dav la caccia
per mettle tun bichier
e trovè cent lir el giorne dop.
Chi piò grand invec
i givne dietra sa le bordelle
mo era na scusa per pomicè.
Po a ’n cert punt
lor han cminciat a sparì
e i me so sposat.
Adess digne ch’en c’en piò.
Mo alora sa ch'ho vist,
le lucciol, o i mi ricord?

In occasione della riapertura della Ferrovia Urbino-Fano

Alleluja! Finalment
tutt Urbin è a la Stasion
en c’è un ch’en è content
d’arviaggè tun chi vagon.

C’è la fila ma’l cancell
per montè t’la sconda class
che t’la prima c’è ‘n cartel:
”Riservata ai capatass”.

Ecch' s’é moss e sem partitt!
Ha fischiat el capstasion
quei armasti tel piancitt
ce salutne sa’l magon.

En s’fa in temp a dì “che bel”
che sem già t’la galleria
tun chel scur piagn un bordel
e ‘na sposa dic’ “va via!”

Arivati a Fermignen
quei del post voine montè
mo cum veghne ch’è tutt pien
cmincen subbit a sbraitè:

“en è giust che quei d‘Urbin
han chiapat tutt le poltron”
acsé i dan el contentin
tacand sò n’atre vagon.

Fosombron naturalment
ecch’ un’antra incassatura
e ma’l tren che va già lent
agiungem n’antra vetura.

Sa’n gran sfors arpart pian pian
mo suced n’antra sommossa
quand arivne a Cuccuran:
”anca no vlem na carossa!"

Quei a Fan aspetta pur
fin a not tun cla stasion
stan tel palch le Prefetur
la Provincia e la Region.

C'è la banda che i aspetta
c'è chi dorme e chi è git via
c'è chi armedia na marchetta
po d’un tratt ecch n’agenzia:

c’en riuscitti, en arpartit!
Han stacat tutt le caross
dal vagon du c’è el Partit
ch’è in arrivo a piò non poss!

Taca banda, bordei cantat!
I bei tempi en artornat
perché tun cla Ferovia
viaggia la Democrasia.

domenica 21 marzo 2010

.

Di più

non potevo

avevo te sul petto

e una nuvola per cuscino

.

Vigilia elettoral

Machè a Urbin è tradision,
tutt le volt ch'c'è n'elesion,
da risolva tutt'i guai,
sa na squadra d'operai.

C'è un uficio permanent,
sa la lista di lament,
mo en è fat, badatce bnon,
per trovai na solusion:

serve sol per chi portin
che c'han bsogn del contentin.
E dacsè per la vigilia
fan partì la Mille Miglia:

Da Badò a Castel Boccion
da Coldelc a Cerquet Bon
da la Torr a la Miniera
han da fnì prima dla sera.

Se qualcun i ved pasè
en fa temp a di "sa ch'è?"
che già quei han cresimat
n'antre ch's'era lamentat:

"stia tranquillo: lunedì
una squadra sarà qui."
Chel lundè naturalment
en ariva propi gnent.

E dacsé chel disgrasiat
Anca lo l’avra imparat
L’unic mod per fai lavrè
Saria d’gì sempre a votè

giovedì 11 marzo 2010

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Ferma.

Se agiti il tempo

senti il crepuscolo

mentre un'idea

scrive il tuo corpo

e tu

sei per sempre

.

sabato 14 novembre 2009

martedì 10 novembre 2009

Gradinata Nord

.
“Gol” hai gridato
fissando il campione
sfuggendo il mio sguardo
e la tua adolescenza
che se ne va via
senza di noi.
Ti accompagnerò
per un giorno ancora
finché scoprirai
che non servo più
e poi per sempre
scomodo estraneo
.

domenica 20 settembre 2009

A un giocatore di pallone nel giorno dell’addio

.
.

C’erne tanti spettatori
tutti dmennica a guardè
la partita pr’arcordè
ma l’amic Paolo Sartori

C’era tutt le autorità
E anca un gran presentator
Mo la squadra in verità
En faceva tant onor

E sicom dop diec’ minut
già tre gol avem chiapat
quei del pubblic han urlat
“fat entrè ma chel canut”!

Chel porett (è da non creda)
Per entrè dentra tel camp
S’è stirat e ha pres un cramp
E’ arvoltat e argit a seda

Vleva fè el canto del cigno
E portè a pari l’ateneo
Mo per vincia ch’el trofeo
En li fa manca Mourinho

Quarant’ann de versament
Ma un minut de cla partita
C’ha spiegat che la su vita
L’ha passata a non fe gnent!

Caro Gigi abbiam scherzato
Su mangiam le pastarelle
E brindiamo al pensionato:
Un de men dla cigielle!

domenica 14 giugno 2009

L'ultimo Bramante

.

Uscirono dal Teatro che era mezzanotte. La corrente che veniva dalla piazza non li fece rabbrividire: l’inverno stava finendo e non era necessario rifugiarsi sotto il Loggiato. Si stava bene fuori, passando sotto la grande abside del Duomo, vicino al muro delle muffe verdi, scolature di vecchie acque sante, che d’inverno raggelano e a primavera risvegliano.
Paolo era desolato:
- Madonna... - e sbadigliò, reprimendo anche una plateale stirata di braccia che limitò ad uno schiudere d’ali - Fortuna che l’aria ci sveglia!
- Davvero, ‘sti russi son pesanti, anche se non si può dire - fece Luciano.
- Ah no, basta! - replicò Paolo risentito - Cechov è palloso e basta. Non potrò mai crescere abbastanza per farmi piacere Cechov. E’ inutile. Ci rinuncio. E rinuncio anche a spiegare perché non mi piace.
Stette in silenzio per qualche attimo, poi partì dietro a un’idea:
- Ecco, no, anzi... non mi piace perché mi fa dormire, e dormire non mi piace, perciò se preferisco il sonno vuol dire che Cechov è ancora peggio. E non mi dire che siccome ho dormito non posso giudicare... Lo spettatore addormentato è un critico acuto: il suo giudizio si è ormai maturato in una scelta definitiva e inappellabile. Il sonno non è una scelta, ma l’effetto della percezione... E’ la Sindrome di Cechov, più leggera di quella di Stendhal ma più diffusa, quindi a maggior impatto sociale. Da curare all’origine, stando alla larga dalle cause... Russi? No, grazie, sto cercando di smettere.
Ridevano bene assieme, quei due amici, con lo stesso gesto di mettersi la mano davanti alla bocca, come a scusarsi. Un gesto da seminaristi, anche se erano stati assieme solo dalle suore, all’asilo. Forse era lì che gliel’avevano insegnato, al tempo in cui t’insegnano i gesti che poi si crederanno istintivi, quando impari senza ricordare, quando sei una pagina bianca, come un quaderno di scuola appena comprato, che tutti vogliono iniziare in bella calligrafia, poi alla seconda pagina arriva una cancellatura, una macchia d’inchiostro, e poi le orecchie che la prima t’incazzi e la fai stirare a tua madre col ferro, ma anche quel quaderno farà la fine di tutti gli altri, con le macchie e i fogli strappati e che ognuno se lo tenga come gli pare che la responsabilità è la sua, noi alla prima pagina gliel’abbiamo fatto vedere come si fa, gliel’abbiamo dato il modello, se poi l’ha rovinato non è colpa nostra, e tu avrai sempre quella pagina bella, linda, che ti aspetta, e si mostra ogni volta per prima, che anche se la salti lo sai che lei è lì, a rinfacciarti il tuo fallimento. La crudeltà del buon esempio.
- Comunque, - fece Luciano rassicurante. - E’ stata una bella stagione... a parte oggi.
- ...e quella specie di Shakespeare?. - obiettò Paolo. - Scespìr, anzi - e declamò: - o’Sscespìr, chille ca nun chiagneva, ma faciva chiagne nuie?. Poveri autori classici, morti e perciò muti. O ci sarebbero tombe urlanti. Pensiamo a questi fantasmi disgraziati quando applaudiamo gente che meriterebbe la gattata.
- A Firenze l’hanno fischiato, lo sapevi, no?
- Sta’ zitto, mi son sentito un verme, quando l’ho saputo. Anch’io avevo applaudito, cosa credi? E prima di farlo ho anche guardato cosa facevano gli altri, ti rendi conto? Non siamo un bel pubblico, siamo solo dei provinciali col complesso d’inferiorità. Scambiamo ancora quello che non ci piace con quello che non capiamo. Il massimo della contestazione sono applausi timidi. E’normale che non piaccia quel che non si capisce, ma un pubblico maturo capisce quello che non gli piace. E noi non lo siamo. E quelli lo sapevano, sennò non avrebbero comiciato qui la tournée.
-Chisà, io non ho fatto la stessa cosa?
Quell’amarezza li accompagnò, senza più parole, fino alla piazza.
I bar avevano già chiuso.
- Hai sonno? - disse Luciano.
- Valà! Ho già dormito, no? Per me è l’alba. Proprio non ho voglia di andare a letto.
- Allora prendiamo due sedie.
- Eh già...come una volta.
Le tirarono giù dalla pila che stava tra le colonne del portico lungo, e si misero vicini, un pò di sbieco, guardandosi e guardando passare le ultime anime morte al teatro, che attraversavano la piazza come corpi estranei. Dirette non più alle case ma alle macchine parcheggiate fuori le mura, le suole come ostili al selciato, timorose dei luoghi che attraversavano, luoghi dei rimpianti inconfessati, ignoravano quei due reduci come tornando dalla campagna di Russia si schivavano quelli che si erano arresi fermandosi, per non cadere nello stesso destino.
Paolo e Luciano erano amici da sempre. Lo stesso quartiere, la stessa compagnia, anche una ragazza scambiata. Però di donne Paolo ne aveva avute molte di più. Era lui il bello della compagnia, “Bambola”, lo chiamavano. Luciano guardava ogni volta quel suo viso dolce e carnoso con invidia, specialmente quand’erano con le donne, sapendo che era a lui che miravano, e pensando a quante avrebbe potute averne lui, con quella faccia.
- Saranno quindici anni che non stavamo seduti qui, a quest’ora.
- Eh, sì. Facevamo le tre, le quattro, a discorrere... di cosa, poi?
- Ah, davvero, mi sa che non dicevamo niente: non me ne ricordo neanche uno di quei discorsi.
- No, io invece qualcosa mi ricordo. Come quella sera dei mondiali. Era l’ottantadue. C’era Carlin che criticava Bearzot: “la sapria fè io la formasion: Zoff, Gentile, Cabrini, Scirea, Tardelli...” e ripeteva tutta la formazione titolare dell’Italia che aveva giocato la sera prima, pari pari.
- Ecco, questo e’ un urbinate, - Luciano ritornò su quel pensiero - è come dicevo prima, è uno che crede di capire quello che è stato già capito da qualcun’altro, e poi va a trovare conferme che già conosceva. Ma lo fa senza accorgersi. E’ un buon vecchio coglione, l’età non c’entra. Qui si nasce buoni, vecchi e coglioni, circondati da buoni vecchi coglioni che ti insegnano come si sta al mondo. Cosa vuoi pretendere?
- Mah! Che amarezza. Siamo urbinati anche noi, e facciamo proprio così. Abbiamo sempre parlato parecchio. Le donne, a voi le americane a me il Beneluxury, “apri le cosce e impara l’italiano”, i gavettoni, le corse dei motorini, e poi, quando facevamo i seri, c’erano le idee assurde, le utopie, gli idealismi proclamati solo per far ridere o per far colpo sulle bordelle. E adesso, adesso che non abbiamo più la giustificazione dell’età, cosa stiamo facendo? Discorsi inutili, sofismi, equilibrismi verbali, verbosi, o magari anche nobili propositi che domattina non ricorderemo nemmeno, e intanto siamo sull’orlo dell’abisso. E già, siamo sull’orlo dell’abisso, perché siamo proprio noi gli ultimi, quelli che hanno la fortuna di poter contemplare il baratro nero in cui stanno per precipitare. Ti sei accorto che Urbino finisce con noi? Siamo gli ultimi nati all’Ospedale Vecchio.
A questo punto si fermò, soppesando l’effetto di quella rivelazione su Luciano, poi, vedendo l’amico pensieroso, si decise:
- Ho una cosa da leggerti. Piuttosto che dirti le cose che ho già scritto, magari facendo finta di pensarle sul momento, te le leggo direttamente. Qualcosa dobbiamo fare, no? E allora ho pensato almeno di rendere testimonianza... come Plinio il Vecchio con Pompei.
Tirò fuori dalla tasca un paio di foglietti piegati, mentre Luciano lo guardava, sorpreso e incuriosito.
- Pronto?
- Prontopronto. - riuscì a dire Luciano sorridendo alla sorpresa.
E Paolo cominciò a leggere :
- Sono nato all’Ospedale, quello vecchio. L’Ospedale Vecchio. Due parole che non resteranno assieme per molto: “...il Monastero di Santa Chiara ospitò per alcuni anni l’Ospedale della SS.Misericordia”. Come quando il morto aveva un soprannome, che non resterà.
Ogni giorno, parole tra loro sconosciute s’incontrano tra la folla per poi perdersi di vista. Se le lasciamo andare. E se invece le tratteniamo, anche solo per un po’, non le lasciamo più. Comincia un pensiero leggero, come quando mia madre spolverava i mobili, e nel raggio di sole che attraversava la stanza apparivano brevi fili di luce. Era soltanto polvere, lo so, ma mi piaceva guardarla farsi nobile luce e scintillare, prima di scomparire. La gloria di un attimo che passa. Come uno di quei pulviscoli, un pensiero gira e rigira, ne raccoglie altri su di sé, diventa pesante. E chiede di non scomparire.
Don Bramante.
Paolo, Icilio, Alessandro e Bramante sono i miei secondi nomi. Don Bramante ci teneva a restare. Affidò ai libri la sua memoria estesa e ai nomi quella ristretta, come messaggi in bottiglia. Ci battezzò tutti così, Bramante e Bramantina.
Siamo noi, i Bramanti e le Bramantine, gli ultimi ad avere avuto le mura di Urbino intorno al primo sguardo.
Su di noi è caduto il peso di anni che non abbiamo vissuto, ma che sono lo stesso nostri: la storia di cui eravamo eredi ce l’hanno caricata sulle spalle, prima di accompagnarci alla porta. Dietro di noi una lunga marcia, migliaia di anime antiche si sono lasciate per sempre le mura alle spalle. Soglia varcata, confine oltrepassato. Non ci sarà ritorno. Si muore di nuovo e per sempre, stavolta. Anche l’anima può morire. L’anima di una città.
Forse la colpa è di qualcuno. La colpa è certamente di qualcuno. Ma forse sono io che mi sbaglio: non esiste colpa. Un’intera comunità decide di lasciare le case della sua storia, e allora la colpa non esiste. E’ solo che la memoria non conta più, quando non rende. Verrebbe da pensare a cosa fare, cosa dire, se per qualcuno si dovesse fare o dire qualcosa. Invece va bene a tutti. Quasi a tutti. A me non va bene. Forse perché non ci guadagno. E nemmeno questa città, questo mucchio di vecchi mattoni forse urlanti, certamente muti, ci guadagna.
Forse parlo io per lei. Presuntuoso. Ma chissà.
Non pensavamo che sarebbe successo. Non è che non ci credevamo, è che non ci pensavamo proprio. E allora non c’importava nemmeno. I vicoli erano tutto il mondo, tutto il tempo.
Non volevo andarci, all’asilo delle suore. Mi tenevano ad un tavolo, a guardare i giochi chiusi e ordinati dentro a una teca di vetro. Stavo buono, al mio tavolo. Pero’ riuscivo ad essere rimproverato: non sapevo soffiare il naso. Non ho mai voluto imparare. Ancora oggi continuo a non voler saper soffiarlo. Una ribellione postuma. Se imparassi sarebbe come rimettermi seduto a quel tavolo, e fare il bravo bambino. Non voglio fare il bravo bambino. Non così. Il passato non passa, lo viviamo ancora, e i luoghi calpestati li sentiamo ancora sotto i piedi.
Aspettavo che ci portassero in giardino, così potevo vedere mia madre che mi salutava dalla terrazza di casa. Un supplizio. Solo nell’amore di una mamma riesce ad esserci tanta perfidia.
Per convincermi ad andare mi chiudeva dentro l’armadio buio. Ma stavo meglio dentro l’armadio buio che all’asilo delle suore. A volte riusciva a farmi arrivare fino davanti al portone, rivedo suor Elvira che mi accoglie a braccia aperte mentre le dico:
- Ho dimenticato il fazzoletto da naso! - e poi corro a casa per non ritornare. Mentivo, ma almeno facevo sapere che al mio naso pulito ci tenevo.
Tornavo dalla mia mamma e dal mio armadio. Nel mio armadio e nella mia mamma. Anche lei non voleva che andassi, l’ho capito solo adesso. Quel chiudermi lì non era altro che un ripormi nel suo ventre. E per quanto pieno di vestiti, era pieno di vestiti di madre, dell’odore di lei. Avevo anche visto uscire dei topi da quell’armadio, era un armadio a muro che dava sulle cantine. Ma resistevo. Dopo un po’ si cominciava a vedere qualcosa e ci si poteva sedere sulle coperte imbottite. Aveva paura che mi affrancassi da lei. Se ci portavano fuori stava in terrazza. Lei credeva di farlo per vedere me ma era perché io vedessi lei. Per farmi soffrire il rinnovo del distacco e non permettere che la ferita cicatrizzasse. Ma è così, sono così le mamme buone. Non si vuole mai perdere ciò che si ama, e se quello ci ama non lo si perde.
Però a spasso ci andavo con lo zio Gualtiero. Ricordi remoti: lui morì che non avevo ancora quattro anni. Ma ho ancora un fotogramma in mente: lui cammina ingobbito avanti a me, come vedevo fare a tanti vecchi allora, con le mani intrecciate dietro la schiena, ed io faccio lo stesso. Da allora ho sempre camminato un po’ piegato, e mi piace ogni tanto rimettermi le mani a quel modo e ricordarmelo. Andavamo verso l’osteria della Piazza dell’Erba, dov’erano i suoi amici, vecchi come lui. Anche le osterie erano vecchie, e sono morte con loro.
Facevamo il giro di tutte: l’Idea, in via Pozzo Nuovo, Cesare, in via del Leone, Montasò e Cecconi, una di fronte all’altra per Valbona, e chissà quali altre. Ogni tanto mi comprava un “biscottol”, una ciambella di pane secco d’anice, che sprigionava il suo gusto inzuppandolo nel vino. Più che di anice, però, sapeva di fumo, fumo di pipa e di toscano: era infilato da giorni, chissà quanti, su un magnifico tridente di legno appoggiato al bancone. Immagine di gloriose agresti fatiche, consacrate al tempo del riposo. Non c’erano finestre nelle osterie, solo la porta, e d’inverno c’era come una nebbia, dentro. Si trovano anche oggi quei biscotti, chiusi nei loro igienici cellophan, con la data di scadenza, gli ingredienti, i valori nutrizionali, le norme di conservazione. Non sono gli stessi biscotti. In questa storia non ci sono ”madeleines”.
Fu per andare in parrocchia che cominciai ad uscire da solo. La parrocchia di San Bartolo, compresa tra via Battisti e via Budassi, si espandeva fin sulle campagne verso il Sasso. Da Don Dante c’erano il biliardino e il ping pong. Eravamo in tanti a voler giocare, così chi perdeva usciva, oppure si giocava “all’americana”, correndo tutti attorno al tavolo da ping pong per colpire la pallina uno alla volta, e chi la mancava usciva. Quando si rimaneva in tre si correva come pazzi, attorno a quel tavolo, e s’inciampava. Marcello aveva due incisivi notevoli, e quando inciampò gli si piantarono sul tavolo. Quell’impronta involontaria è vissuta più di lui, il suo libero arbitrio lo ha portato via, un triste febbraio di qualche anno dopo.
Quello stesso tavolo, ogni agosto, si copriva di canne e di grandi fogli di carta verde, i colori di Lavagine, per la Festa dell’aquilone.
Eravamo i più forti, i più numerosi, un esercito agguerrito che partiva da una chiesa. Come i crociati, le armi benedette. E come per loro, se eccessi ci furono fu per una giusta causa: si tagliava qualche filo, si calpestava qualche aquilone, si faceva piangere qualche bambino, ma alla fine si vinceva, questo contava. E la sera andavamo a suonare i tamburi in giro per il quartiere dei grandi, odiati rivali, quelli degli aquiloni gialli, quelli di Hong Kong.
Ma la nemesi è venuta, e adesso dobbiamo vivere tutti a Hong Kong. Quel drago, quel mostro ha allungato i suoi tentacoli a dismisura, oltre le colline del nord, e li ha irrorati del sangue delle nostre vite. Ci ha stanati, estirpati, ci ha tolto anche la volontà di resistere, blandendoci con l’innegabile luce che inonda i suoi falansteri. Ci ha corrotti fino a tradire.
Così oggi a San Bartolo non c’è neanche più il parroco. Viene un canonico del Duomo per qualche vecchio, la domenica. Allora, la domenica, se arrivavi un poco in ritardo non riuscivi ad entrare, dalla gente. Dovevi passare da fuori, dalla sagrestia, e salire in cantoria con i più grandi che ti facevano i dispetti. C’era una gerarchia nei posti assegnati: i più piccoli, i catecumeni, assieme alle suore in prima fila. Ai lati dell’altare due panche per i più grandicelli, e infine l’ascensione, il traguardo della cantoria, per i ragazzi. Gli uomini stavano in fondo, vicino all’uscita o anche fuori. Istinto di antiche usanze contadine, dove gli uomini concludevano affari e baratti sul sagrato festivo. Dalla campagna a San Bartolo, e ora di nuovo fuori.
C’è stato il rigetto.
Per secoli la vita è trascorsa immutabile, poi pochi anni e tutto è scomparso. Gran sorte, aver memoria fresca di secoli lontani.
Facevamo i chierichetti incoraggiati dal Tabellone delle presenze. Una messa servita una casella annerita, e alla fine del mese mille, dico mille lire al primo, cinquecento al secondo e centocinquanta al terzo classificato. Verso la fine del mese, allo scatto finale, si andava alle benedizioni, ai vespri, ad ogni funzione possibile, a volte anche in cinque o sei, e la gente rideva. Si rendeva necessaria la divisione dei compiti. Ciò creava abilità ma anche rischi. Capitava di dover fare cose che non si erano mai fatte.
La corda della campana non era al pianterreno, una porta della cantoria si affacciava sul vuoto, all’interno del campanile. Un giorno un improvvisato campanaro venne risucchiato dalla corda dentro la tromba del campanile, e lo riprendemmo al volo un attimo prima che precipitasse.
Un’altra volta, dentro la sagrestia, facemmo a gara a chi riusciva a far fare il giro della morte all’aspersorio pieno di incenso fumante. A Veris, nel momento di massima spinta, scappò dalle mani, colpì il soffitto e i tizzoni d’ incenso si sparsero sul tappeto, sui paramenti dell’altare, e bruciacchiarono un po’ dappertutto. In un attimo riuscimmo a spegnere ogni focolaio e non si seppe più nulla. A me, uno di questi solerti pomeriggi di fine mese, capitò di servire un vespro da solo. Il mio dramma era la campanella, quella che si suona durante la cerimonia eucaristica, il momento più solenne di tutta la messa. Non l’avevo detto al don, volevo essere il migliore, ma non sapevo che fare. Così aspettai che si voltasse verso il ciborio, e in un attimo portai la campana a una signora che stava in prima fila, sicuro che lo sapesse: avevo individuato la più esperta.
- Suoni lei quand’è il momento, la prego! - lei si assunse quell’onere glorioso, e tutto andò liscio.
Sono convinto che il povero Don Dante in quelle occasioni pensasse seriamente di eliminare i premi. Oggi dovrebbe centuplicarli: non ci sono più bambini a San Bartolo, non c’è neanche più il prete. Ci sono i vecchi, i genitori di allora, che hanno visto i loro vecchi morire e i loro figli andarsene, e hanno gli studenti nelle camere che furono dei figli.
Non pensavamo che sarebbe successo, quando a decine inondavamo i vicoli urlando senza sapere il perchè. Volevamo esistere. Si grida appena venuti al mondo, e si continua a gridare per molto, fino ad essere sicuri che si sia notata la nostra presenza. Quando poi vorremmo nasconderci.
Dai vicoli sciamavamo spesso nella campagna appena fuori la porta di Lavagine. Era vicina, allora, la campagna, era parte della città. Appena fuori la porta c’era una grande volta, sotto la via dei Morti, che aveva sotto tre vasche comunicanti. La prima era bianca di sapone, e lì le donne lavavano i panni. La terza era limpidissima, per l’ultimo risciacquo. Questa era tabù per noi, guai a tirarci un sasso o anche solo a metterci le mani: ci scappavano urla e schiaffoni dalle lavandare.
Poco oltre i lavatoi cominciava la strada sterrata che portava al Perlo. Su un lato, in uno spiazzo appartato, il giogo per la ferratura delle bestie. Faceva impressione: ricordava le forche delle storie di Tex Willer. Ma il Perlo era soprattutto il luogo delle capanne: appena sotto la strada, la macchia si faceva ripida e fitta. Lì, a gruppi di due o tre, si puliva uno spiazzo di terra, lo si mimetizzava, ci si nascondeva qualcosa di nostro per renderne importante la difesa, si piazzavano trabocchetti all’ingresso. Poi si partiva per andare a scoprire e distruggere quelle degli altri. Le più belle, però, diventavano patrimonio comune, luogo di riunioni. Ne ricordo una grande e bellissima, rifinita a gradoni e aperta come un balcone sul fondovalle. L’orlo del terrazzo si affacciava su un fosso di rovi, e proprio lì sopra c’era una grossa liana. La prova del coraggio: lanciarsi con la liana oltre il baratro e tornare sulla terrazza. Naturalmente non ci si poteva sottrarre. E naturalmente a qualcuno sarebbe successo, prima o poi. Toccò a Donato. Quando si lanciò io ero lì. Vidi la liana spezzarsi nel momento di massima estensione, quando Donato era nel punto più alto e lontano. Lo vedemmo precipitare e scomparire nel baratro, senza un grido. Impiegammo tutto il pomeriggio per tirarlo fuori: ad ogni movimento le ortiche e i rovi lo ferivano, ma alla fine non si fece quasi nulla.
Ora su tutto questo ci passa la circonvallazione. A volte ci vado a fare una passeggiata, per rivedere dov’erano le nostre capanne, ma non c’è niente da fare, sono proprio sotto alla strada, e chi passa non ne sa nulla. In quanti posti passiamo senza sapere le cose incredibili e grandiose che hanno fatto bambini di cento e mille anni fa? Quali imprese possono aver compiuto quei bambini? Tutto, tutto era grande, anzi, “bestiale”, eppure le piccole immense cose che fanno i bambini nessuno le conosce, nemmeno quegli stessi bambini, una volta cresciuti, le giudicheranno così. E invece furono davvero immense le nostre avventure, perché accaddero in un tempo assoluto. Non c’era il senso della morte a relativizzare ogni gesto, non c‘era la comparazione col resto del mondo e della storia, c’eravamo solo noi e la nostra immortalità. Davvero pensavamo che non ci sarebbe mai capitato nulla, anzi non pensavamo affatto al tempo della vita. Pensavamo al tempo del giorno. Il resto del mondo era solo una messinscena, che ci trovava spettatori disattenti.
E’ rimasto solo il poggio da dove lanciavamo gli aquiloni. Un posto ideale per quello, non ci sono cavi, il vento può venire da tutte le direzioni, ed era bello starci seduto col filo di cotone in mano, con l’aquilone sospeso e stabile al centro del cielo. C’era anche l’ombra dei tre grandi pioppi. Loro ancora sono là, li vedo ogni giorno, ma se li guardo col ricordo sento un dolore. Mi sembra di averli traditi: loro non hanno disertato. Perché io, perché noi non siamo più ai loro piedi coi nostri aquiloni? Se anche loro non ci fossero più lo potrei capire, non ci sarebbe nessuno da andare a trovare. Visitare gli infermi. E gli amici fedeli che abbiamo abbandonato? Mi sento in colpa. Lo so che mi prenderebbero per pazzo. Se mi sedessi là, che cosa ci starei a fare, con decine di macchine che passano ogni minuto, curiose di gente, e i miei anni invisibili che non mi possono giustificare? Vorrei svegliarmi un mattino ed essere solo nel mondo, andare dovunque si voglia essere soli ed esserlo davvero, solo per qualche giorno, giusto il tempo necessario, poi far tornare tutti, ci mancherebbe, magari per scomparire io e lasciar fare agli altri lo stesso.
Andrei a lanciare il mio aquilone, e lascerei che il filo si aggrovigliasse tra i rami, per dire a quei pioppi “tenete, lascio a voi la matassa, ma attenti a dargli il filo quando lo vuole. Io tornerò presto: non ho ancora giocato abbastanza...”
A un passo da quei pioppi, poco più su, c’erano le viti e i ciliegi. Adesso li separa la strada. Tra quelle viti ci andavo con Agnese. Avevamo dodici anni. Quanti attimi dimentichiamo per sempre, anche giorni interi, magari di una settimana fa, e quanti, vecchi di venti o trent’anni, sappiamo che non scorderemo mai. Ricordo la posizione in cui eravamo, sdraiati sull’erba uno di fronte all’altra, e anche il giornalino che leggevo, Billy Bis, quel giorno che con un dito arrivai a toccarle il capezzolo, fingendo di continuare a leggere. Chissà quanto tempo stetti su quella pagina, su quella figura, con quel dito paralizzato. Vedevo Billy che saltava sulla sua Isotta Fraschini, e intanto immaginavo quel capezzolo. Aveva già dei seni ben formati, e io non sapevo che fare. Non ero capace di andare più in là e non volevo perdere quel contatto. Eppure gli anni e le ragazze successive mi dimostrarono che non ero affatto timido. Solo con lei non sapevo andare avanti. Forse non volevo. Non volevo abbandonare il tempo dell’innocenza, non volevo crescere. Del resto neanche oggi lo vorrei. Sono fatto così. Sono un immaturo. Non crescerò mai. Ma perché poi? C’è davvero un’utilità nel crescere, e quale? C’è una convenienza nel crescere, questo sì. La convenienza. Convenire, convenzione, convenzionale, piatto, sciatto, banale, comune, conformista. No, no, non voglio crescere. Voglio piantare un albero e vederlo crescere, quello è diventare grandi. E quell’albero voglio essere io. Io, l’unico che si è poi masturbato legggendo Billy Bis.
Un tralcio di vite, magari vorrei essere. Tra le viti ci si nascondeva bene anche di giorno, ci si andava con le ragazze, e si facevano baciare. Era inebriante come far l’amore davvero, ma allora non lo sapevo, e credevo che l’amore completo sarebbe stato sconvolgente. Per me era come lo sbarco dei marziani. Adesso è come vederli ripartire.
In pochi metri tanti episodi, e momenti tanto diversi, vissuti fuori le mura. Non so se i miei siano ricordi di città o di campagna. Penso che forse mi si preparava il destino degli esuli.

Paolo tacque. Alzò gli occhi e fissò l'amico in silenzio.
A quel punto Luciano pronunciò la frase che aveva pensato più volte durante la lettura, come un pensiero parallelo all’attenzione dell’ascolto, che gli scorreva su un piano diverso e personale:
- L’hai portato apposta per me, o ce l’hai sempre avuto in tasca?
- Ce l’avevo in tasca da un po’, ma aspettavo di leggertela stasera... non voglio che la legga nessun altro.
Poi, dopo una pausa e un respiro:
- Come ti sembra?
- Ah! Dici che non vuoi che la legga nessun altro e poi mi chiedi com’è. Chi ha un solo lettore si interessa della sostanza, non della forma, no?
Paolo stette zitto per un po’, prima di riconoscere la verità:
- Ma dai, lo sai benissimo che la forma è il contenuto, sennò non c’è messaggio. Il grande scrittore e il fallito sono comunque due grafomani. E io voglio sapere da te chi sono dei due. Perciò, se non piace a te lascio subito perdere.
- Madonna, che responsabilità! Non sia mai che privo la letteratura mondiale del nuovo astro nascente! Quindi non lo farò -disse abbassando il tono. - Diciamo che c’è una phoné che avvolge ed affascina, costringendo a darti ragione, la ragione che si tende a dare ai coerenti. Però lo sai cosa si dice delle autobiografie, che quando ci si accorge di non poter passare alla storia si passa alla letteratura. E’ una strada in salita, la tua. Ne riparleremo quando avrai scritto tutto, se avrai altro da dire... Piuttosto, vedo che ti brucia abitare fuori, eh?
- Non mi brucia abitare fuori, mi brucia esserci stato costretto. Non aver potuto scegliere. E poi mi brucia quel ricatto del paesaggio, del sole, che non è altro che una trappola maledetta: molti vanno a star fuori perché dalle finestre di questi casermoni, aggrappati al fianco della collina, lo sguardo si perde dietro al sole, fino all’orizzonte più lontano, e ti fa scordare quello che hai di più vicino. Quando sono andato a vedere il mio appartamento, infatti, mi son detto: “però, finalmente potrò vedere il tramonto, ogni sera, estate e inverno. Ecco, insomma queste case-fuori non sono poi così male.” E così ti fregano. Ti trasferisci, poi passa un po’ di tempo, non tanto, e una mattina vedi che cominciano dei lavori di scavo, un po’ più a valle. Piano piano, inesorabile, una nuova casa ti cresce davanti, proprio fra te e quelle colline, fra te e quel tramonto. Come per un condannato, il tempo del crescere di quel palazzo è il tempo che ti separa dall’esecuzione. Quello sguardo che si perdeva nei progetti lontani... non c’era limite al dilatarsi delle prospettive - la metafora con la vita è evidente, no? - finchè poi, una sera, tutto finisce. Il cemento ti rinserra. Una premorienza programmata, scientifica, già prevista nei piani regolatori, su documenti catastali che non conoscevi ma che esistevano certamente, in qualche luogo dove nessuno ti aveva accompagnato. Per pietà. Per non darti il dolore della verità. E’questa presa per il culo, che non mi sta bene.
Luciano si alzò di scatto, a un tratto insofferente a quel posto e a quell’indolenza, e anche alla china che stava prendendo il discorso, ma negandosi il pretesto di una fuga pensò ad una passeggiata finale che lo riconciliasse con quei mattoni:
- Dove hai la macchina ? - disse.
- Fuori Lavagine - rispose Paolo alzandosi anche lui, lentamente, come trattenuto da un peso invisibile.
- Bene, anch’io. Però, visto che non volevi andare a dormire, facciamo il giro delle mura.
Così tornarono di nuovo a quella strada, indietro per dov’erano venuti. Avanti e indietro, ma due sole volte nella stessa sera, fuori dai portici lungo i quali si facevano cento volte cento vasche in una sera, magari salutando cento volte cento le stesse persone, col saluto che però ogni volta si affievoliva, fino a sfumare nell’allusione di un sopracciglio, e per fortuna a un certo punto si andava a casa, ché se si fosse continuato ancora sarebbe arrivata l’indifferenza, poi l’odio immotivato, i futili motivi, la cagione di una rissa feroce. Motivi futili e profondi, l’odio di trovare nei tuoi simili la tua stessa condanna. Il carcerato che osserva il vestito dell’ergastolano e l’uccide nel vederglielo ben stirato. Perché? Futile motivo. O forse no. Simboli.
Ancora luci accese al teatro. Gente dimessa, lavoranti, il sotto le quinte. Gli venne in mente Dickens. Più leggeva e più ogni cosa reale ricordava a Paolo qualcosa di immaginario, di immaginato da altri. Disse:
- Hai ragione tu, devo ancora capire se scrivo o de-scrivo. L’autobiografia non è letteratura.
- Non è proprio così: lo è se ti limiti ai fatti. Cosa resterebbe della Recherche, se ci si limitasse alla fabula? Non preoccuparti, non pensare a come scrivere, che quello non s’impara, anche se qualche scrittore arrotonda le entrate allestendo improbabili “scuole” speculando sugli illusi. Scrivi per te, non per un pubblico che devi solo immaginarti. Immaginalo come migliaia di te stessi, amico ma non indulgente, ma soprattutto abbi delle idee originali. Se non sai cosa dire, sta’ zitto e basta. Se hai un’idea, buttati e non lasciarla finchè non si esaurisce da sola. Dietro una sola idea sono state costruite fortune. E la qualità non è mai andata a peso... quando l’hai cominciato?
- Quest’inverno. Mi volevo segnare quello che un giorno avrei dimenticato. Poi mi sono accorto che sto molto meglio nel passato che nel presente. Sono un soggetto ansioso, ho paura di ogni situazione, di non controllarla. Invece nel passato so cosa mi sta per accadere, fosse pure una malattia, un’umiliazione, una figuraccia. Lo so. Eppure so anche che per me non c’è nostalgia. Gli ansiosi non hanno nostalgia, se ricordano l’ansia, se di un episodio vissuto conservano solo l’aspetto esteriore, la sua immagine, dimenticando come l’abbiamo vissuto. Un po’ come diceva Pavese: non è bello esser bambini, è bello da vecchi ricordare quando si era bambini. Chissà quali cupi pensieri agitavano la tua mente, in quel giorno al mare che rivedi in un flash-back. La vita degli ansiosi è quella degli ipocondriaci, uno spreco. Ogni momento, bello o brutto che sia, ne minaccia uno peggiore e lo diventa. Ma basta, che i momenti belli sono quelli normali, così inerti da non contenere nessun pericolo attivo. La felicità teme il tempo, l’infelicità che questo si fermi. Solo la normalità non ha nemici, e gioisce dell’assenza del dolore. L’atarassia, consolazione dei mediocri.
- Ah, così questo sarebbe un momento atarassico: grazie - scherzò Luciano. - E va bene...
Adesso camminavano in silenzio.
Il silenzio non era assoluto, come non lo è mai da nessuna parte, nemmeno nel deserto, dove il battito del cuore e l’agitarsi dei polmoni si espandono nello spazio, e dilatano la presenza dell’uomo fino a non si sa dove, per rimandargli un’eco assordante. Quando si resta soli si diventa un simbolo. Si diventa tutti. Se fossi solo nel mondo, non sarei l’intera umanità? Solo la morte è silenzio nel deserto.
Passeggiando con un amico lungo le mura è bello il tacere, ha il sapore dei pensieri malinconici e confortevoli, restano in mente le ultime parole e se ne preparano altre senza fretta, come quando hai in bocca il sapore del caffè e non accetti nient’altro che possa rovinarlo. La voglia di costruire un castello di carte, portarlo sempre più in alto senza toccare ciò che già è stato fatto, la paura di far cadere tutto senza però potersi fermare, vedere dove si può arrivare, poi qualcuno apre la porta al vento, e tutto finisce in un crollo.
Luciano aggiunse una carta:
- Arriva un momento che si fanno i bilanci. Si tira una riga e...
- Basta! - lo interruppe Paolo - per stasera non abbiamo più niente da dirci a questo proposito, e siccome siamo ancora lontani dal parcheggio, cerchiamo di cambiare discorso.
- Ho capito! Quando non sai più cosa dire te, non c’è più niente da sentire.
- Dai giù, non fare il permaloso, che l’ho detto proprio per toglierti dall’imbarazzo. Mancava poco che dicevi “Tout passe, tout lasse, tout casse” e poi eravamo a posto.
- Eh, vuoi che parliamo di fica?
- Sempre un buon argomento!
- Va bene - Luciano vide dov’erano e gli venne un’idea - però solo se è pertinente coi posti dove passiamo, va bene?
- Eh... va bene - Paolo mise in moto i ricordi: - per esempio lì sotto. Guarda... - si affacciò al muro e Luciano fece altrettanto - vedi lì? Puntato contro il muro della volta ho toccato la mia prima fica. La Lupa...
- Ah, ah! La sapevo questa, c’erano passati a centinaia e te non sapevi cosa fare, sei andato avanti a toccarle la fica per un’ora finchè non s’è stufata, giusto?
- Cazzo, avevo tredici anni, mica sapevo fare tutto come te. Io ero di famiglia buona, venivo dalle scuole delle suore, mica dal Pascoli.
- Guarda che io ma la Luppa en ho manca mai avut el coragg’ da tocalla, carin, e se lo vuoi sapere quest’idea del posto m’è venuta guardando il torrione di S.Polo, dove ho conquistato la Joelle con le stelle cadenti. Quella sì che era un’impresa impossibile, atre che la Luppa! Te la ricordi, la Joelle? - alzò la voce. - Ti devi ricordare, tutti si devono ricordare, guai a chi se la scorda, cazzo. Era la mia, e non ne avrò mai più, una così bella. E in qualunque posto sia, di sicuro è sempre troppo lontano da me. O forse mi sta guardando da chissà dove, lei, troppo bella per un solo pianeta, una delle migliaia di forme di vita dell’universo, ma la migliore di tutte, col suo telescopio potentissimo... - poi salutò con la mano il cielo stellato e disse: - Ciao Joelle, ovunque tu sia, sei sempre mia!
- Adesso ho capito perché i marziani non vengono: li spaventi te! - disse Paolo. Ma Luciano continuava a perdersi:
- Eh, già... migliaia di forme di vita, sì, che esistono certamente. Di questo ci convinciamo facilmente. Ma allora esistono anche migliaia di forme di morte, no?
- Forme di morte... la morte è sempre una sola, per tutti;: semplice assenza.
- Allora c’è anche in quei pianeti dove la vita non c’è mai stata. Quindi la vita c’è solo in qualche posto, e ancora non siamo sicuri nemmeno di quello, mentre la morte è sicuramente in molti più posti.
- Non è detto, - disse Paolo: - se nell’universo c’è un equilibrio di ogni cosa e del suo contrario, e molti lo dicono, contrapposti alla morte desolata che ci circonda in questo sistema solare, devono esserci ammassi stellari pieni di vita, dove i pianeti rigurgitano di folla che urla, si accalca, si accoppia e passa da una festa all’altra cavalcando missili a forma di tappo di champagne che fischiano e fischiettano da un pianeta a quello dei vicini e non hanno pace, e nei rari momenti di riflessione si domandano se esistono pianeti disabitati in qualche posto dell’universo, dove rifugiarsi e attendere finalmente una morte che non arriverà. Mah...! Pensa un po’ se la Joelle, se è in uno di ‘sti pianeti goduriosi, si mette a perdere il tempo a guardarti. E poi, se deve guardare a uno, guarda a me.
E così ripresero la strada parlando di donne, e ce n’erano di storie da raccontare lungo lo Spineto, al torrione di S.Chiara, fino alle mura di S.Bartolo. Solo per pochi momenti tornarono ad alzare la testa, quando Luciano notò il passaggio di Giove sullo Zenith, e dopo aver rievocato una conquista dovuta alle stelle cadenti aggiunse:
-Vorrei che ogni sera fosse S.Lorenzo, - disse - e che le stelle a cadere fossero tante di più e tanto più luminose e di tutti i colori, che cadessero tutto l’anno, anche di giorno, che le potessero vedere anche i ciechi, e che i desideri si potessero avverare tutti, anche quelli opposti fra loro. Eppure non sarà mai così. Vedi? Non è il migliore dei mondi possibili. Questo potrebbe farmi pensare che Dio non esiste, e invece non sono sicuro di nulla. Penso anche che forse Dio ha fatto questo mondo imperfetto proprio per lasciarci nel dubbio. In un mondo perfetto non c’è spazio per i dubbi. E allora la Fede, che ha la natura del dubbio, cosa sarebbe?
La domanda avrebbe meritato un contesto più serio, infatti la lasciarono cadere nel vuoto e ripresero a parlare di sesso spinto come se nulla fosse stato. Non c’è niente di più immaginifico delle storie di sesso. Arrivarono alla porta di Lavagine che avevano appena scalfito l’argomento. Si può non finire mai di parlare di donne, ma arrivò comunque il momento di salutarsi.
- E adesso, quanto staremo senza rivederci? - disse Paolo
- Finchè non avrai finito un altro capitolo, no?
- Spero prima... chissà se ci rimetterò le mani.
- Ah, no, voglio vederlo finito, lo sai che non sopporto il tempo perso, perciò a questo punto lo devi continuare e finire, va bene?
- Va bene.
- Promesso?
- Promesso!
- Buonanotte.
- Ciao.
E anche quella sera, arrivato a casa, sebbene fossero le due e un quarto, Paolo stette un po’ a guardar dormire suo figlio, e come ogni sera sentì il suo petto riempirsi di gioia e tristezza, pensando all’amore e alla bellezza, e a tutto quello che non dura. Lo baciò, poi se ne andò a letto. La mattina dopo avrebbe dovuto lavorare, ma continuava a pensare. Non era un pensiero solo, ché quelli prima o poi si stancano e ti lasciano dormire, era un rigirare di sospetti e di progetti che si accavallavano e lottavano per prevalere uno sull’altro, e lui dava retta ora questo ora a quello, senza poterli trattenere. Il risultato era un gran rumore in testa: Luciano voleva che proseguisse, ma diceva di volerlo solo per amicizia o perché gli era piaciuto davvero? E se gli piaceva, cosa lo aveva affascinato, il soggetto, lo stile, il ritmo? Scrivere cambia solo la vita mentale o anche quella pratica?
Alla fine, come ogni sera, prevalse il fatalismo, la disposizione dell’animo che precede ogni sano riposo e concilia col sonno inevitabile.
Il mattino dopo si sentiva diverso. Ricordava una delle risoluzioni prese alla vigilia del sonno: doveva escludere dalla sua vita tutto quello che non contava. Abbandonare tutti gli incarichi inutili, le perdite di tempo, i progetti a corto respiro. Segretario del Circolo Motociclistico: cosa avrebbe mai potuto dargli in cambio di questo, la vita? Nulla, perché lui non offriva nulla.
Così anche quel mattino, come gli accadeva ogni tanto, probabilmente più spesso di quanto non accada di solito a un uomo, gli venne in mente l’ultimo momento della sua vita, e si divertiva a pensare alla frase che aveva già pronta: “avant moi... le déluge!”: la sintesi della sua vita, il disastro che si era trascinato con sé, senza avervi saputo porre rimedio. Un passaggio inutile, un lento trascorrere di tempo sprecato, e solo per questo apparentemente breve.
Perché infatti si pensa a un fatto di dieci anni prima, e subito ci sembra che sia passato solo un giorno? Perché è passato davvero solo un giorno, è sempre stato lo stesso giorno che si è ripetuto tremilaseicentocinquantadue volte, sempre lui. Quali altri fatti si sono frapposti fra noi e quel giorno, se non vuoti episodi, morti pensieri inutili? Il lavoro, la spesa, lavare la macchina, la pratica, la visita, la chiacchiera, il saluto, la cena, la televisione, il sonno, poi il lavoro, la spesa, la benzina alla macchina, la pratica, la visita, la chiacchiera, il saluto, la cena, la televisione, il sonno. Si vive senza pensare che un giorno scopriremo che la vita ci è passata sopra, o sotto, o addosso, o di lato, comunque ci ha superati, noi e le piccole cose inutili a cui tenevamo tanto, e che a quel punto desidereremmo ricominciare tutto daccapo con una nuova e più forte coscienza.
Pentimenti, rimorsi, rimpianti. Sprecare la vita, questo è l’inferno. Provate allora a pensare al viaggio che avete fatto dieci anni fa, e trovate almeno un ricordo preciso per ognuno di quei dieci anni. Solo dieci ricordi. Sembra facile, ma potrebbe non esserlo. E allora, vorrebbe dire che un intero anno l’avete perduto, e a settant’anni non avrete nemmeno messo da parte settanta fatti memorabili. E di quei pochi non riuscireste nemmeno a scrivere, le lacrime agli occhi non vi farebbero vedere.
La paura ci fa vivere come sorci, rintanati nelle nostre deboli sicurezze, ci toglie la forza di metterci in discussione, di tentare la via di un’utopia che pure certamente abbiamo. Paura della miseria, della malattia. Il sollievo di un povero ammalato è che non ha più nulla da temere. E la morte toglie anche gli ultimi timori. Ogni giorno un “vorrei”, ogni giorno frustrato dalle mille aderenze su cui scarichiamo la nostra vigliaccheria, la catena del condannato ce la siamo forgiata da soli, e non si cerchino scuse.
Tutti questi furono i suoi pensieri di un attimo. Non li dispiegò in parole, ma non ce ne fu bisogno. Ormai erano i suoi compagni di viaggio, e non se ne sarebbe più separato.


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